Con una lunga schiera di sindaci e pensatori comunisti da una parte e lo storico appellativo di “Stalingrado d’Italia” dall’altra, non stupisce che il Comune di Saint-Denis, alle porte di Parigi, e quello di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, abbiano stretto un gemellaggio già 54 anni fa. «È stato mio padre – racconta Giorgio Oldrini, ex sindaco del comune lombardo – ad averlo stipulato nel 1961. A tenerci uniti è sempre stata una lunga tradizione “di sinistra”», che ha portato i due comuni, lontani ma vicini, a promuovere politiche sociali molto simili, attente cioè all’inclusione dei giovani, delle fasce più deboli e, recentemente, anche degli immigrati.
Ma ha funzionato? Ora che, con l’assalto al presunto covo di Abdelhamid Abaaoud, Saint-Denis si (ri)scopre uno dei quartieri generali degli stragisti islamici, è lecito chiederselo: non è che la tolleranza sia stata eccessiva? Non è che ha agevolato l’attività violenta degli estremisti religiosi?
«Proprio quando credi che la violenza possa essere sconfitta da chi sa rimanere uman, ecco che tutte le certezze cadono. Noi tutti eravamo sicuri che il terrorismo fosse figlio dell’emarginazione, della mancanza di lavoro, della repressione: in quel contesto lì sarebbe dovuto germinare l’odio, ma non a Saint-Denis»
A ben guardare nessuno dei due comuni si è mai tirato indietro quando si è parlato di inclusione sociale: nel 2006 il comune di Saint-Denis era il primo, in tutta la Francia, a proporre un referendum per dare agli immigrati residenti il diritto di voto alle elezioni amministrative. E nel 2013 Sesto San Giovanni era il primo comune lombardo a conferire la cittadinanza onoraria italiana a 3000 bambini nati in Italia da genitori stranieri.
Eppure Saint-Denis è diventata tristemente famosa per avere dato riparo alla mente delle stragi di Parigi, a una manciata di terroristi tra cui la donna kamikaze che si è fatta saltare per aria, agli autori dell’eccidio di Charlie Hebdo. «Proprio quando credi che la violenza possa essere sconfitta da chi sa rimanere umano – prosegue Oldrini – ecco che tutte le certezze cadono. Noi tutti eravamo sicuri che il terrorismo fosse figlio dell’emarginazione, della mancanza di lavoro, della repressione: in quel contesto lì sarebbe dovuto germinare l’odio, ma non a Saint-Denis».
E Sesto? È una città accogliente e aperta che vuole fare i conti con le varie comunità che la popolano. A partire proprio da quella musulmana: qui è presente una sede provvisoria del centro culturale islamico, in attesa che venga costruita la moschea definitiva. A chiederla a gran voce sono stati gli stessi fedeli musulmani, che abitano a Sesto ormai da quasi 20 anni: «La moschea – dice Monica Chittò, attuale sindaco di Sesto San Giovanni – fa parte di un percorso di accompagnamento all’integrazione che noi riteniamo necessario non solo per la comunità islamica ma anche per quella dei cittadini del quartiere Restellona, dove sorgerà l’edificio: da sindaco fa piacere sapere che i referenti di entrambi i mondi si incontrano ormai in modo autonomo, portando avanti quel cammino che noi delle istituzioni abbiamo solo iniziato».
E aggiunge: «Il mio sogno sarebbe quello di realizzare una convenzione a tre, che coinvolga l’amministrazione comunale, il quartiere e la comunità islamica sulla falsariga del modello di Colle Val d’Elsa». Il comune in provincia di Siena è stato il primo in Italia ad avere sottoscritto, nel 2004, il primo atto giuridico stipulato fra una istituzione rappresentante lo Stato italiano e una associazione di religione e cultura musulmana. Il documento tutela la libertà religiosa e i principali diritti della persona umana, senza però dimenticare di fare rispettare i doveri della comunità verso lo Stato italiano.
Insomma, Chittò ha un’idea molto precisa di cosa significhi fare politica d’integrazione sul territorio: «Dobbiamo uscire dalla logica dell’emergenza e chiederci se sia meglio governare o subire una situazione. Io voglio governarla, e per questo voglio confrontarmi e parlare con le persone, perchè è quello che non conosco che mi spaventa».
A riprova della sua tesi, cita un evento che è capitato nella città sestese: «Due anni fa ci siamo ritrovati un centinaio di persone straniere “piazzate” regolarmente in uno stabile affittato da una cooperativa. Nessuno in Comune ne sapeva nulla, così, dopo avere chiesto un incontro con la prefettura, ho deciso che ci sarei andata di persona, nonostante la mia presenza non fosse stata gradita. Quell’occasione mi è servita per pensare che l’unica soluzione per soddisfare la necessità di spazi fosse che il Comune prendesse in mano la situazione: e così abbiamo fatto. Attraverso un bando ministeriale abbiamo riaffidato l’ex sede di Cgil, Cisl e Uil Lombardia alle cooperative UniAbita e Lotta contro l’emarginazione, creando un progetto di accoglienza in accordo con la prefettura di Milano. In questo modo oggi non solo sappiamo cosa fanno 26 profughi di età compresa tra i 20 e i 30 anni, ma offriamo anche loro la possibilità di intervenire volontariamente in lavori socialmente utili come la pulizia delle strade dalle erbacce».