Italiani e cittadini comunitari non sanno neanche cosa sia. Ma per gli immigrati extracomunitari presenti in Italia il certificato di “idoneità abitativa”, quello che dice se la casa in cui abiti è o no a norme di legge, è un obbligo. Se vuoi un lavoro, un permesso di soggiorno di lungo periodo, o anche chiedere il ricongiungimento con i familiari, non puoi farne a meno: lo richiede il Testo unico sull’immigrazione, sulla base di due direttive europee. I comuni che rilasciano i certificati lo sanno. E molti, in questi anni di riduzione dei trasferimenti dallo Stato centrale, ne hanno approfittato per fare cassa. Gonfiando i costi per il rilascio e aggiungendo scartoffie e passaggi tecnici. Un dazio da pagare, in una stratificazione confusa di norme statali e locali, a volte anche con l’obiettivo – soprattutto in alcuni comuni amministrati dalla Lega Nord – di dissuadere gli stranieri a insediarsi nei propri confini. Tutto è a totale discrezione delle amministrazioni comunali: si va dal rilascio quasi gratuito della maggior parte delle amministrazioni, fino ai 300 euro e oltre di Napoli e diversi piccoli comuni della bergamasca. Spesso con l’aggiunta dell’obbligo di rivolgersi a tecnici convenzionati che fanno lievitare il prezzo finale da pagare. Alla faccia dell’integrazione.
Se un italiano o un comunitario vogliono affittare o comprare un appartamento, firmano un contratto, attivano gli impianti di fornitura dell’energia e traslocano. All’extracomunitario, si aprono invece le mostruose porte della burocrazia, che in questo caso può essere anche costosa. E i parametri sono molto più stringenti: a una coppia italiana con un bambino è permesso di vivere in un bilocale di 35 metri quadri, a una coppia di stranieri no.
Se un italiano o un comunitario vogliono affittare o comprare un appartamento, firmano un contratto, attivano gli impianti di fornitura dell’energia e traslocano. All’extracomunitario, si aprono invece le mostruose porte della burocrazia. Se a una coppia italiana con un bambino è permesso di vivere in un bilocale di 35 metri quadri, a una coppia di stranieri no
L’Inca (Istituto confederale nazionale di assistenza), il patronato della Cgil, ha esaminato le richieste di 128 comuni, da Nord a Sud, tra quelli che mettono a disposizione sui siti web comunali le informazioni necessarie per il rilascio dell’idoneità abitativa. E il risultato è un “tariffario” a macchia di leopardo. Con differenze di centinaia di euro anche tra comuni confinanti. «Se le intenzioni del legislatore erano quelle di assicurare al lavoratore e ai familiari conviventi condizioni abitative compatibili con le norme igienico sanitarie, quello che avviene nella realtà non sempre coincide con queste intenzioni», spiega Claudio Piccinini, responsabile immigrazione dell’Inca. E «i costi aggiuntivi non sempre sono collegabili ai costi diretti sostenuti dalle amministrazioni».
Tra il 2014 e il 2015, il Tribunale civile di Bergamo per ben due volte si è espresso sul carattere discriminatorio dei costi per il rilascio delle idoneità abitative: prima a proposito del comune di Bolgare, che ha aumentato i diritti di segreteria da 150 a 500 euro, mentre nel 2011 il costo era di soli 30 euro; poi sulla decisione del comune di Telgate di fissare il costo per il rilascio del certificato a 325 euro. Entrambi i comuni sono amministrati dalla Lega Nord.
Nonostante il rilascio del certificato non sia diventato più costoso negli anni, diversi comuni hanno rivisto il tariffario al rialzo. A Cologno Monzese, Milano, ad esempio, nell’ultimo anno il costo è salito da 70 a 100 euro. Ad Albino, Bergamo, si è passati da 27 a 160 euro. A qualche chilometro di distanza, a Seriate, da quest’anno si chiedono 220 euro.
Nonostante il rilascio del certificato non sia diventato più costoso negli anni, diversi comuni hanno rivisto il tariffario al rialzo. A Cologno Monzese, Milano, ad esempio, nell’ultimo anno il costo è salito da 70 a 100 euro. Ad Albino, Bergamo, si è passati da 27 a 160 euro. A qualche chilometro di distanza, a Seriate, da quest’anno si chiedono 220 euro
«I requisiti di idoneità», dicono dall’Inca, «sono stati talvolta fissati dai Comuni sulla base di criteri particolarmente stringenti, con l’intento malcelato di scoraggiare l’esercizio al diritto di ricongiungimento familiare degli stranieri, costretti a cercare una sistemazione abitativa in Comuni limitrofi, magari disposti a rilasciare il certificato di idoneità in termini più ragionevoli». E ci sono stati casi in cui i comuni hanno chiesto le certificazioni relative all’abitazione come requisito per l’iscrizione all’anagrafe. È successo nel 2007 nel comune di Cittadella, in provincia di Padova. Nel 2010 a Meolo, Venezia. E nel 2011 a Calcinato, in provincia di Brescia, dove con una ordinanza, è stato chiesto che gli stranieri avessero un reddito minimo e l’idoneità di alloggio per ottenere la residenza. Con tanto di attività di controllo costante da parte dei vigili. Poi l’ordinanza venne ritenuta discriminatoria dal Tribunale di Brescia.
Ai costi dichiarati, più o meno giustificati, poi se ne aggiungono altri, nascosti nelle procedure e nella documentazione richiesta a corredo della domanda di idoneità alloggiativa. Alcuni comuni chiedono semplicemente carta d’identità e permesso di soggiorno per avere il certificato. Altri presentano un lungo elenco: copia delle bollette, dichiarazione riscaldamento autonomo o centralizzato, certificazione di conformità dell’impianto elettrico, libretto dell’impianto di riscaldamento, documentazione attestante l’allaccio della fognatura pubblica o “copia autorizzazione fossa Imhoff” (?), libretto di manutenzione della caldaia, copia della denuncia Tarsu, dichiarazione di conformità dell’impresa installatrice degli impianti gas e luce. E il comune di Vigevano chiede addirittura una dichiarazione della “data di scadenza del tubo del gas che collega i fornelli”. Documenti che, scadenza dei tubi a parte, spesso sono già in possesso degli uffici comunali.
Copia delle bollette, dichiarazione riscaldamento autonomo o centralizzato, certificazione di conformità dell’impianto elettrico, libretto dell’impianto di riscaldamento, documentazione attestante l’allaccio della fognatura pubblica o “copia autorizzazione fossa Imhoff” (?), libretto di manutenzione della caldaia. E il comune di Vigevano chiede addirittura una dichiarazione della “data di scadenza del tubo del gas che collega i fornelli”
In due terzi dei comuni esaminati dall’Inca, compare anche la necessità di rivolgersi a un “tecnico abilitato”, convenzionato o no con il comune, in grado di rilasciare certificati di conformità degli impianti, di idoneità delle misure dell’appartamento, del rispetto del tetto massimo di occupanti e così via. E con questo inghippo i soldi che il cittadino straniero deve sborsare cominciano a crescere. «In molti casi si è obbligati a fare riferimento a personale tecnico convenzionato, che a volte ha anche costi superiori al mercato», dice Piccinini. Le fatture presentate dai tecnici abilitati vanno dai 150 fino a richieste di 300-400 euro. Costi che spesso gli immigrati sostengono senza battere ciglio, «perché sono in una situazione di estrema ricattabilità. Senza questi certificati non possono lavorare o far arrivare i propri parenti».
Per giunta, si fa anche molta confusione sulle norme da seguire per la valutazione dell’idoneità alloggiativa. Da una parte c’è la normativa nazionale, che si rifà a un decreto ministeriale del 1975 che detta le regole per l’edilizia residenziale pubblica. Dall’altra ci sono le leggi regionali, di solito più restrittive rispetto ai 14 metri quadri a persona richiesti dalla legge nazionale. Il ministero dell’Interno è intervenuto nel 2009 con una circolare in cui si dice di tenere come punto di riferimento i requisiti del decreto del 1975, ma i trattamenti differenti da regione a regione esistono ancora. Se i requisiti della legge nazionale chiedono 28 metri quadri a persona, in Puglia ad esempio la legge regionale ne richiede almeno 45. «Ma la norma si riferisce a case di nuova costruzione», dice Piccinini. «Ci sono case nei nostri centri storici, ad esempio, che non rispettano questi parametri e che quindi non possono essere abitate dagli immigrati extracomunitari».
Poi si aggiunge la certificazione dei requisiti igienico sanitari, che deve essere rilasciata dalla Asl e presentata insieme alla idoneità abitativa per ottenere il permesso di lungo periodo e il ricongiungimento familiare. E anche qui i parametri non sono uguali per tutti. Con casi paradossali in cui i requisiti sul numero degli occupanti previsti dal comune sono diversi da quelli previsti dall’Asl.
Le cose si complicano di comune in comune. A Bari, se uno straniero deve chiedere il ricongiungimento familiare, deve presentare due richieste: una all’ufficio tecnico del Comune, per l’idoneità abitativa, l’altra alla Asl, per l’idoneità igienico sanitaria. A Roma, invece, la domanda si può presentare tramite Internet. Ma prima bisogna avere una visura catastale e della planimetria in scala 1:1000 redatta e firmata da un tecnico abilitato o rilasciata dalla Agenzia delle entrate. Una volta compilata la domanda, si stampa la richiesta con l’elenco dei documenti da presentare. Poi si fissa appuntamento in municipio, si consegna la documentazione e si aspetta una mail in cui si dice che la documentazione è corretta o no. Nel caso di ricongiungimento, le mail da aspettare sono due. E alcuni municipi hanno stabilito in totale autonomia che bisogna anche presentare un certificato di abitabilità o la relazione di un tecnico abilitato. Per “agevolare” i cittadini mettono anche a disposizione un elenco di tecnici. Peccato che il tecnico abilitato presente nell’elenco di uno dei municipi abbia chiesto 250 euro per la prestazione, a fronte dei 150 chiesti da uno fuori dall’elenco. A Milano si chiedono invece due versamenti separati, uno di 76, l’altro di 72 euro. Più una marca da bollo da 16 euro, e 52 centesimi, in contante (è specificato), per i diritti di segreteria.
A Roma alcuni municipi hanno stabilito in totale autonomia che bisogna anche presentare un certificato di abitabilità o la relazione di un tecnico abilitato. Per “agevolare” i cittadini mettono anche a disposizione un elenco di tecnici. Peccato che il tecnico abilitato presente nell’elenco di uno dei municipi abbia chiesto 250 euro per la prestazione, a fronte dei 150 chiesti da uno fuori dall’elenco
«In molte situazioni», spiega Piccinini, «la mancanza anche di uno o due metri quadri porta alla non concessione del certificato di idoneità, con la perdita conseguente del permesso di soggiorno o del ricongiungimento familiare». Tanto che a latere si è sviluppato un “mercato immobiliare fantasma”, con proprietari italiani che, a fronte di un pagamento, firmano «contratti fasulli che attestino la residenza dell’immigrato in un appartemento che rispetta i requisiti richiesti», spiega Piccinini.
«Abbiamo una cura degli immigrati che non abbiamo di noi stessi», diceva nel 2006 Giuliano Amato intervenendo alla commissione Affari costituzionali della Camera. «Vorremmo che qualcuno andasse da una giovane coppia italiana che si è sposata, che ha potuto permettersi solo 35 metri quadrati e che ha avuto un bambino, e gli dicesse che se ne devono andare, perché per il loro bambino lo spazio non è sufficiente? Abbiamo però un amore particolarmente paterno per i nostri immigrati: vogliamo che lascino casa, e nessuno si preoccupa di trovargliene un’altra, se nel frattempo gli è nato un bambino». In quella occasione Amato chiedeva in cambiamento della legge vigente, ma in nove anni non è cambiato nulla. E se proprio non possono fare a meno degli immigrati, molte amministrazioni hanno preferito “usarli” per tenere i conti in ordine.
A latere si è anche sviluppato un “mercato immobiliare fantasma”, con proprietari italiani che, a fronte di un pagamento, firmano «contratti fasulli che attestino la residenza dell’immigrato in un appartemento che rispetta i requisiti richiesti