Occident Ex-PressUna domanda: ma la green economy funziona contro la crisi?

Per il report GreenItaly la risposta è sì: occupazione e competitività, l'economia “verde” in Italia è già realtà. Per l'economista Stagnaro la risposta è no: quei soldi nell'industria creerebbero lavoro fino a 7 volte tanto. Il dibattito è aperto, aspettando i grandi della Terra a Parigi

«Per il made in Italy la green economy ha più a che fare con l’essere che con il dover essere». Si apre con un motto quasi filosofico il report GreenItaly 2015, presentato nelle ultime settimane da Fondazione Symbola e Unioncamere e giunto alla sua sesta edizione consecutiva. Il report traccia un bilancio sullo stato dei green jobs in Italia e sulle imprese che producono beni e servizi eco-sostenibili o tesi a ridurre l’impatto ambientale, e lo fa nei giorni in cui, in una Parigi blindata, va in scena la ventunesima edizione della Conferenza mondiale sul clima.

In queste ore, il dibattito su come coniugare l’esigenza di tutelare l’ambiente e ritrovare la spinta propulsiva per l’economia – in molti Paesi ferma al palo da anni – torna attuale come non mai.

In questo contesto i numeri di GreenItaly sembrano portare una ventata di ottimismo: «Nel 2015 – si legge nel rapporto – il 14,9 per cento delle assunzioni previste dalle imprese riguarda i green jobs», ma se si considerano anche le professioni “ibride”, cioè quelle figure che possono contribuire indirettamente alla riduzione dell’impatto ambientale di una filiera produttiva, questa percentuale sale al 43,9 per cento. In termini assoluti parliamo di quasi 300mila persone, il 59 per cento della domanda di lavoro.

Mentre a Parigi va in scena la 21esima Conferenza mondiale sul clima, il dibattito sugli effetti della economia “verde” torna attuale. I numeri del report GreenItaly sono incoraggianti: nel 2015 il 14,9 per cento delle assunzioni sono green jobs; negli ultimi 7 anni oltre 370mila imprese hanno investito e sono quelle con le migliori performance sui mercati esteri

E anche dal lato delle imprese i dati sono incoraggianti. Fra il 2008 e il 2014, 372mila aziende hanno investito in prodotti, tecnologie e competenze green – circa 1 su 4 dell’intera imprenditoria italiana e 1 su 3 nel settore della manifattura – garantendosi fatturati più elevati e un miglior posizionamento sui mercati esteri: le imprese che hanno investito, infatti, esportano nel 19 per cento dei casi contro il 10,7 per cento di quelle che non lo hanno fatto.

Uno dei dati più sorprendenti riguarda i mercati di sbocco: le imprese green destinano gran parte dei loro prodotti in Paesi come India, Cina, Sud Africa e Arabia Saudita e non nelle aree che storicamente rappresentano i nostri partner commerciali prediletti come Stati Uniti, Regno Unito e le altre nazioni della zona euro.

Cifre e dati che sembrano tracciare una strada ben precisa per il futuro dell’economia italiana e che hanno riscontrato il favore, in più occasioni, di organizzazioni come Legambiente e della stampa.

Come spesso accade, però, bisogna andare a guardare anche l’altro lato della medaglia: c’è chi ha messo in discussione l’approccio “green-ottimista” all’economia, sopratutto per le sue conseguenze sull’occupazione e i posti di lavoro.

Carlo Stagnaro è un ingegnere ed economista, fra i fondatori dell’Istituto Bruno Leoni e autore di numerosi saggi che studiano le implicazioni economico-scientifiche della lotta ai cambiamenti climatici. Nella primavera di quest’anno è approdato al Ministero dello sviluppo economico di Federica Guidi, come capo della segreteria tecnica.

Stagnaro ha pubblicato nel 2010, assieme al collega Luciano Lavecchia, un paper che ancora oggi fa molto discutere sin dalla scelta del titolo: “Are green jobs real jobs? The case of Italy”.

I due autori non entrano nel merito del contrasto ai cambiamenti climatici e quindi della necessità di una policy ambientale, ma svolgono un ragionamento prettamente economico a partire da una domanda: l’economia “verde” è uno strumento efficace per creare occupazione e agire come stimolo anti-crisi? La risposa è secca: no, sicuramente molto meno di altri settori come industria e terziario.

Una domanda: la green economy è uno strumento efficace per l’occupazione e contro la crisi? Per l’economista Carlo Stagnaro la risposta è no. Se gli stessi soldi fossero investiti nell’industria e nei servizi, l’effetto moltiplicatore sui posti di lavoro sarebbe fino a sette volte superiore

Ogni posto di lavoro creato grazie allo sviluppo di fonti rinnovabili, come eolico, solare e fotovoltaico assorbe una quantità di risorse da 4 fino a 7 volte superiore rispetto a un posto di lavoro in altri settori. Per ottenere il “potenziale massimo teorico” nel 2020, stimato nel 2007 dal secondo governo Prodi, l’Italia dovrebbe investire ogni anno sei miliardi di euro sotto forma di contributi diretti, incentivi e sussidi. Se quelle stesse risorse fossero lasciate libere di agire, secondo Stagnaro e Lavecchia, l’effetto moltiplicatore sui posti di lavoro sarebbe pari a 4,8 nell’economia in generale e a 6,9 nell’industria. Per i due autori non c’è nulla di sorprendente in questo dato: la green economy è ad alta densità di capitale non ad alta densità di lavoro ed è quindi normale che crei meno occupazione dei settori tradizionali.

È chiaro che i risultati di questo studio, che si potrebbero trascurare durante un ciclo economico positivo, “pesano” maggiormente sull’Italia per via della stagnazione e degli elevati tassi di disoccupazione negli ultimi anni. Va anche fatto notare che gli economisti del Bruno Leoni e gli autori di GreeItaly 2015 forniscono due definizioni radicalmente diverse di cos’è un green job: la prima molto stretta, la seconda inclusiva. Ed è questa una delle ragioni che li porta a conclusioni opposte.

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