“Dare ai bambini l’immagine di un mondo migliore: è questo il senso del Natale”. La chiusa dello spot della campagna di Système U, catena francese di supermercati, è intoccabile. Un secondo dopo, in sovrimpressione, si legge “genderfreechristmas”, con immancabile hashtag. Prima, bambine e bambini dicono (anzi recitano una sceneggiatura scritta da adulti che si pongono una domanda che ai bambini non spetterebbe porsi, ovvero se l’identità sessuale sia dato naturale o storico, amplificatore differenziale o disgregatore sociale) che i maschietti giocano a calcio, hanno i supereroi e non sanno occuparsi di un bebè; le femminucce amano le cucine, si vestono di rosa, bevono il tè; i papà vanno a lavoro e portano i soldi a casa.
Poi, stacco: in sovrimpressione appare la domanda “questo è vero quando iniziano a giocare?” e via, quegli stessi bambini entrano in una stanza piena di lego, macchinine, bambolotti e i ruoli si sparpagliano, i maschietti mettono il pannolone ai bambolotti, le femminucce suonano la batteria e alla fine una di loro dice “mi piacciono tutti i giochi, per maschi e femmine”. Applausi virtuali unanimi. La commozione per l’innocenza e la freschezza di quei bambini obnubila la percezione dell’uso, tutto adulto, cosciente e pubblicitario che ne viene fatto: lo sfondo natalizio, con il suo corredato di bontà coatta, innalza al di sopra di ogni sospetto anche le scene in cui quei bambini vengono fotografati e piazzati su un catalogo, accanto ai prezzi dei giochi che impugnano, gioiosi. Quest’anno, quindi, il buon genitore deve chiedersi se sia il caso di perpetrare uno stereotipo di genere acquistando una Barbie alla figlia femmina o schierarsi dalla parte del #freegender e impacchettarle un trattore.
Il genio commerciale è inventare una bambina adulta, che pensa al futuro, lo programma, lo pretende
E a proposito di Barbie: con una mossa di raffinata intelligenza commerciale, la Mattel (vituperata per decenni come la fabbrica della reificazione femminile) ha diffuso uno spot, qualche mese fa, in cui una veterinaria, un’allenatrice di rugby, una dottoressa e un’insegnante stupiscono il mondo con la loro competenza professionale e la loro statura (pochi centimetri, trattandosi di bambine). “Quando una ragazza gioca con Barbie, immagina di poter diventare chiunque”, era lo slogan. Anche in quel caso, commozione planetaria e rimozione sia delle colpe ataviche della Mattel (una delle poche certezze del capitalismo), sia di qualsiasi dubbio su quell’estetizzante spoliazione della spensieratezza, attraverso cui si stava trasmettendo un’idea di gioco che era, di fatto, orientamento professionale, anzi, peggio, declinazione delle infinite possibilità dell’essere e dell’esserci solo e soltanto nella carriera.
Il genio commerciale della Mattel è stato, così, intorpidire la nostra percezione della profonda differenza che esiste tra una bambina che dichiara “voglio fare la dottoressa, la ballerina” e una bambina che gioca per sognare di diventare qualcuno di importante, cioè una bambina adulta, che pensa al futuro, lo programma, lo pretende, meritocratico.
Si vogliono trasferire nell’infanzia questioni che governano l’età adulta, come la riflessione sull’identità sessuale e l’elaborazione del proprio ruolo
Nel gioco, sosteneva Vygotskij, psicologo, il bambino fa ciò che desidera di più perché è la sua dimensione di piacere, quindi esso corrisponde all’area di sviluppo potenziale più importante delle sue capacità. L’attenzione al gioco, quindi, è fondamentale. Le femministe degli anni ’70, infatti, combatterono una battaglia strenua sull’importanza di non veicolare, attraverso bambole infiocchettate, il ruolo stereotipato e senza scampo di una donna la cui realizzazione umana si esaurisse nella cura domestica (testo esemplare: Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti). Sono passati decenni da allora e il dibattito sull’incidenza delle abitudini del gioco nella realizzazione di sé ha ripescato, con sfacciataggine anacronistica, i medesimi leitmotiv. L’intento, spacciato per ampliamento degli orizzonti creativi individuali, è duplice: affidare al giocattolo la potestà educativa e critica dei bambini (che, invece, è compito di chi li ha messi al mondo) e traslocare nell’infanzia questioni che governano l’età adulta, come la riflessione sull’identità sessuale e l’elaborazione del proprio ruolo.
Il video di Système U è un esempio, così come lo è la rimozione, da parte della Disney, delle etichette “per bambini/bambine” dai suoi giocattoli (faceva notare il New York Times due mesi fa, però, che la rigida divisione dei sessi permane nei colori: l’azzurro e il rosa sono ancora, rispettivamente, vessillo maschile e femminile). L’immagine di un mondo migliore, da impartire a Natale, insomma, non è più quella di un posto che viva in pace, fratellanza e concordia, ma di un posto in cui le specificità del maschile e del femminile si azzerano.
La femminista Luce Irigaray: «L’annullamento delle differenze tra uomo e donna risponde al fenomeno della tecnicizzazione, cioè un fenomeno contrario alla vita. Solo il mondo della tecnica è neutrale»»
«L’annullamento delle differenze tra uomo e donna risponde al fenomeno della tecnicizzazione, cioè un fenomeno contrario alla vita. Solo il mondo della tecnica è neutrale», disse, qualche anno fa, in un’intervista apparsa su Il Giornale, Luce Irigaray, filosofa, psicanalista e linguista belga, femminista, convinta che l’identità di ciascun individuo sia sempre sessuata. Se il mondo diametralmente opposto al pensiero della Irigaray sia migliore o peggiore, è una valutazione, tuttavia, non centrale rispetto all’altro problema su cui dovrebbe obbligarci a riflettere la tecnicizzazione dell’infanzia, che da isola che non c’è, stiamo trasformando in un istituto per la parificazione di tutte le età della vita.