L’invio, il 5 dicembre, di un ridotto contingente di truppe turche vicino a Mosul in Iraq – 150 uomini secondo Ankara, fino a 1200 secondo Washington, più una ventina di carri armati – ha scatenato un grave allarme nella regione. Pur essendo, secondo le dichiarazioni del governo turco, destinati ad addestrare ed aiutare truppe irachene (in particolar modo peshmerga curdi-iracheni) in vista delle operazioni militari che in futuro dovrebbero cacciare lo Stato Islamico da Mosul, i soldati turchi sono stati immediatamente qualificati dal governo di Baghdad come una minaccia, e la loro presenza come una violazione della sovranità nazionale.
Il presidente del consiglio iracheno al Abadi e il Presidente della Repubblica Massum hanno subito chiesto il ritiro, e l’ambasciatore turco a Baghdad è stato convocato dal ministro degli Esteri per chiarimenti. La risposta della Turchia è stata che l’invio di truppe era il frutto di un accordo con il governo regionale curdo-iracheno, guidato dal presidente Massud Barzani, e che comunque altre non saranno mandate senza che prima si siano placate le preoccupazioni di Baghdad. Non è ancora possibile pronosticare se la formale protesta del governo iracheno sortirà come effetto il ritiro di quelle già dispiegate – opzione ritenuta la meno probabile dagli esperti – o no. Di sicuro si può dire che non tutto l’aiuto offerto contro il Califfato è bene accetto: molto dipende da chi lo offre, e a chi.
L’Iraq è entrato da anni nell’orbita dell’Iran (capofila dell’asse sciita), da quando – caduto il regime di Saddam Hussein e resasi meno incombente la presenza americana – nelle urne trionfano le forze che rappresentano la maggioranza sciita del Paese. Dopo la degenerazione della guerra in Siria in una proxy war tra potenze sunnite e sciite (Arabia Saudita e Turchia contro Iran, specialmente), Baghdad si è ancor di più avvicinata a Teheran, arrivando ad appoggiare esplicitamente il regime di Assad (alawita, minoranza assimilata agli sciiti) alleato della Repubblica Islamica Iraniana.
La presenza della Turchia nel territorio iracheno può diventare un dato geopolitico per i decenni a venire. I nemici sciiti dello Stato Islamico ancora non si fidano di Ankara
Attualmente il centro di coordinamento delle operazioni militari in Siria del regime, dell’Iran, dell’Iraq e della Russia si trova proprio nella capitale irachena. Inoltre le milizie che negli ultimi mesi hanno combattuto più aspramente contro lo Stato Islamico (mentre l’esercito regolare ha spesso svolto male il proprio compito) sono di carattere settario, sciite appunto, irachene e iraniane. Di contro la Turchia è una potenza sunnita, in Siria appoggia i ribelli che vogliono rovesciare Assad, è ai ferri corti con Mosca, in particolare dopo l’abbattimento del cacciabombardiere russo, e nel passato ha spesso dimostrato di essere più interessata a sconfiggere il regime siriano e i curdi-siriani (legati al Pkk curdo-turco, partito marxista e da poco risprofondato nella guerriglia contro Ankara) che non il Califfato.
«Certamente il governo iracheno – che ha dichiarato l’azione della Turchia una violazione del diritto internazionale e “un atto ostile” – teme un’ulteriore presenza armata sul suo territorio da parte della Turchia, le cui finalità anti-Isis non sono così cristalline (come d’altronde sta dimostrando Ankara con la questione del petrolio acquistato dall’Isis e, in generale, con l’atteggiamento nei confronti della Russia)», spiega Germana Tappero Merlo, analista internazionale esperta di sicurezza e terrorismo. «Baghdad inoltre teme la creazione di una base militare turca permanente proprio vicino a Mosul, a Bashiqah, secondo un accordo fatto fra il leader curdo Massoud Barzani e il ministro degli esteri turco Feridun Sinirlioglu a inizio novembre». In questo contesto si spiegano dunque le rassicurazioni turche sul fatto che, dopo questo primo contingente ridotto, non saranno inviati in Iraq altri soldati senza il benestare di Baghdad.
Non si può escludere che Ankara, con questa operazione, abbia voluto sondare il terreno. La reazione irachena è stata molto netta: suscita maggior preoccupazione l’ingerenza turca (che sfrutta l’autonomismo curdo rispetto a Baghdad) che non il Califfato stesso. Se infatti al secondo si danno alla peggio pochi anni di vita, la prima può diventare un dato geopolitico per i decenni a venire. Inoltre, il non-detto nelle dichiarazioni ufficiali ma evidente per gli analisti, è che i nemici sciiti dello Stato Islamico ancora non si fidano della Turchia.
Secondo alcuni analisti il piano occidentale di fronte al caso-Stato Islamico è di causare una caduta al rallentatore del Califfato, in modo da dare tempo ai propri alleati sunniti di organizzarsi per non lasciare che i territori sottratti all’Isis finiscano nelle mani degli sciiti e dei curdi siriani (Ypg) legati al Pkk
«Dietro ai timori di Baghdad vi sono le pressioni di Teheran che non solo, in caso di ingerenza turca, vedrebbe complicarsi il ruolo delle milizie sciite che finanzia e appoggia in tutto l’Iraq, ma che rischierebbe di subire il rafforzamento della componente curdo-irachena a nord», dice ancora Tappero Merlo. «Se i curdi a nord ottenessero, dietro “protezione” turca, uno Stato/enclave indipendente, ci sarebbe il rischio concreto di una divisione dell’Iraq tra curdi, sunniti e sciiti, a danno di questi ultimi che al momento controllano – almeno sulla carta – l’intero Paese. Gli sciiti si vedrebbero relegati nella regione meridionale dell’Iraq, oggi la più povera di risorse, anche agricole, a causa degli interventi scellerati risalenti agli anni di Saddam Hussein. Per le stesse ragioni a Baghdad si sono detti contrari all’invio, da parte degli Usa, di truppe speciali nel nord dell’Iraq nella regione curda: il timore è che anche gli americani – alleati nella Nato coi turchi – finirebbero col danneggiare gli interessi sciiti e, forse, finirebbero col propiziare un frazionamento del Paese».
Secondo alcuni analisti il piano occidentale di fronte al caso-Stato Islamico, ovviamente non detto esplicitamente per non turbare le opinioni pubbliche, è di causare una caduta al rallentatore del Califfato, in modo da dare tempo ai propri alleati sunniti (Turchia e Sauditi in testa) di organizzarsi per non lasciare che i territori sottratti all’Isis finiscano interamente nelle mani degli sciiti e dei curdi siriani (Ypg) legati al Pkk.
La questione curda è un altro fattore di complicazione dello scenario: dopo un apparente avvicinamento tra la componente irachena (moderata e non ostile alla Turchia, anzi) e quella siriana (legata invece al Pkk, nemico della Turchia e marxista) grazie alla comune lotta contro il Califfato a Kobane, le ultime vicende potrebbero propiziare l’esplosione di una nuova faida interna.
L’invio di truppe turche pare sia stato chiesto da Barzani (a cui forse sono state fatte promesse politiche ed economiche da Ankara), e una delle più dure condanne è arrivata dal presidente iracheno, il curdo – legato al partito Puk, più vicino al Pkk e al Ypg, che non al partito di Barzani – Massum. «La Turchia potrebbe sfruttare la sua posizione in Iraq per agire con i curdi/peshmerga di Barzani contro i curdi siriani dell’Ypg», sostiene Tappero Merlo e conclude: «non è una novità che il mondo curdo sia molto diviso fra diverse componenti, sovente in competizione fra loro. Già negli anni ’90, quando Saddam Hussein permise loro di dividersi gli introiti dalla vendita del loro petrolio, iniziarono una guerra interna molto violenta che portò addirittura Barzani a farsi sostenere da Saddam contro Jalal Talabani (predecessore di Massum ndr), suo oppositore e altro rappresentante curdo di rilievo, che si fece di contro sostenere da Teheran».