In questa fase storica sembra persino più difficile ottenere un tasso di inflazione che sia decentemente lontano dallo zero rispetto agli obiettivi – pur non semplici – di abbassare la disoccupazione ed aumentare il numero degli occupati.
Il fatto è che l’ultimo dato dell’inflazione rilasciato da Istat è negativo nel confronto tra ottobre e novembre, cioè i prezzi sono scesi da un mese all’altro dello 0,4%, mentre la variazione dei prezzi resta leggermente positiva (per un misero 0,1%) se si confronta “anno su anno”, cioè il dato di novembre 2015 con novembre 2014.
Bisogna badare con attenzione al rischio di dare troppo peso alle variazioni di breve termine, che potrebbero essere largamente di carattere aleatorio, ma si dà il caso che l’andamento abbastanza robusto dei prezzi tra settembre e ottobre aveva lasciato ben sperare su un consolidamento di un’inflazione da domanda, cioè un’inflazione causata da un andamento più forte degli acquisti di beni e servizi finali da parte dei consumatori.
Il tema della preoccupante mancanza di inflazione si connette essenzialmente con il tema di una ripresa economica che resta debole, e che fatica a raggiungere la soglia psicologica dell’1 per cento. Anzi, come ben notato da Antonio Signorini su Il Giornale, il sospetto è che il governo Renzi abbia costruito la propria manovra finanziaria su stime eccessivamente ottimistiche del tasso di crescita reale del Pil nel 2015, che alla fine dell’estate è stato rivisto al rialzo dallo 0,7 allo 0,9 per cento.
È evidente come la Banca centrale europea resti nella situazione non semplice di avere annunciato un obiettivo di inflazione del 2% e di essere ancora piuttosto lontana dall’ottenerlo
Il dubbio è che l’incertezza sull’andamento futuro dell’economia e dei nostri conti pubblici blocchi – o comunque rallenti – le decisioni di acquisto da parte di imprese e famiglie (macchinari e beni durevoli). Non solo: l’espansione monetaria da parte della Banca centrale europea non si è ancora tradotta in un aumento forte dei finanziamenti bancari alle imprese, secondo un meccanismo generalizzato di attesa che non giova.
Volgendoci al contesto europeo, è evidente come la Banca centrale europea resti nella situazione non semplice di avere annunciato un obiettivo di inflazione del 2% e di essere ancora piuttosto lontana dall’ottenerlo. Teniamo inoltre presente che un tasso di inflazione quasi nullo è una notizia quasi pessima per tutti i debitori, che beneficerebbero di un tasso di interesse reale (cioè al netto dell’inflazione) se per l’appunto l’inflazione alzasse il capo almeno un po’. E non dimentichiamoci che lo Stato italiano appartiene saldamente alla categoria dei grandi debitori e dunque trarrebbe indubbi vantaggi da un tasso di inflazione vicino all’obiettivo del 2 per cento.
La questione va affrontata secondo una prospettiva diversa, che non è esclusivamente focalizzata sulla politica monetaria ma si allarga anche alla politica fiscale, la quale dovrebbe dare il suo contributo, principalmente nella forma di maggiori investimenti pubblici e di minore incertezza sulle tasse future
Forse la questione va affrontata secondo una prospettiva diversa, che non è esclusivamente focalizzata sulla politica monetaria ma si allarga anche alla politica fiscale, la quale dovrebbe dare il suo contributo, principalmente nella forma di maggiori investimenti pubblici e di minore incertezza sulle tasse future. Si tratta evidentemente di una questione politica, ma l’idea sottostante è che da un lato gli investimenti pubblici – sia a livello nazionale che a livello europeo – possano fare da volano agli investimenti privati e contribuire all’ammodernamento delle nostre infrastrutture, mentre dall’altro lato tagli consistenti delle imposte sono ritenuti credibili da famiglie e imprese in quanto vengono finanziati da un taglio strutturale della spesa pubblica corrente, cioè al netto degli investimenti.
È una visione di politica economica adatta per ogni stagione e per ogni circostanza? No. Ma si tratta di un approccio pragmatico che tiene conto dei vincoli esistenti (il nostro debito pubblico), delle insufficienze della politica monetaria e di una ricerca empirica in macroeconomia che attribuisce un’importanza crescente a un fattore sfuggente – ma certamente pervasivo – come l’incertezza.