Ci sono imputati che andrebbero assolti per inquinamento mediatico. La spettacolarizzazione del giudizio produce cortocircuiti sempre più evidenti (e a tasso di populismo sempre più grave), con sentenze che indignano quando smentiscono la condanna preventiva di tv e giornali; o con decisioni che risultano influenzate dagli stessi processi mediatici.
L’ultimo della lunga serie è Alberto Stasi. Assolto in primo grado. Una seconda assoluzione in appello. Poi la cassazione ordina il rifacimento dell’appello e qui arriva la condanna a sedici anni (come per Franzoni, sedici, non trenta…) si torna in cassazione, dove il procuratore generale dice che il secondo verdetto in appello non sta in piedi. Contro ogni aspettativa a questo punto la cassazione conferma la condanna. Ma dov’è la prova?
Inaudito quanto accaduto nel caso Yara Gambirasio. Ricordate il filmato che ‘inchioda’ Massimo Bossetti, quello in cui – con tanto di logo dei carabinieri – si vede il furgone simile dell’imputato transitare diverse volte nei dintorni del luogo della scomparsa della vittima? Stando alle parole del comandante dei carabinieri, colonnello Giampietro Lago «è stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa». Potremmo fermarci qui in questa disamina di casi mediatico giudiziari, moderna evoluzione del vecchio adagio «sbatti il mostro in prima pagina». Altroché prima pagina!
Sembra infatti, sempre più spesso, leggendo informazioni di garanzia e ordini di custodia cautelare in carcere, che gli atti siano scritti e pensati non tanto per sostanziare e ragoni dell’accusa, quanto per colpire l’opinione pubblica e aggravare la posizione di indagati e imputati. Nel caso di Bossetti, il colonnello Lago ammette che il video è stato confezionato ed è un montaggio di più spezzoni di immagini immortalate da cinque telecamere diverse e che non c’è la certezza che mostri sempre lo stesso mezzo. Durante l’udienza è infatti stato accertato che una sola di queste telecamere ha fornito delle immagini sufficientemente chiare per identificare il furgone, e che solo quelle sono state depositate agli atti del processo per l’identificazione del colpevole dell’omicidio di Yara Gambirasio.
Non c’è alcun limite conosciuto all’arrapamento gornalistico generato dalla corsa alla lapidazione del possibile colpevole. Gli esempi tipici li conosciamo tutti: indugiare ossessivamente sulle caratteristiche lombrosiane dell’assassino, gli occhi, le mani, gli atteggiamenti, le reazioni che inchioderebbero il presunto mostro. Gli occhi, la voce e l’atteggiamento di Anna Maria Franzoni sono stati tra gli elementi che hanno portato alla condanna a sedici anni per l’omicidio del figlio, Samuele.
La stampa, supportata dagli inquirenti, ci fa sapere che Massimo Bossetti è stato assai probabilmente tradito dalla moglie e certamente è un figlio nato fuori dal matrimonio. Insomma, becco e figlio di buona donna
La stampa, supportata dagli inquirenti, ci fa sapere che Massimo Bossetti è stato assai probabilmente tradito dalla moglie e certamente è un figlio nato fuori dal matrimonio. Insomma, becco e figlio di buona donna, con totale spregio di privacy, rispetto della dignità delle persone. Il risultato? Pensiamo non solo a Bossetti, ma anche – per limitarci – a sua moglie e a sua madre: vite distrutte, esistenze spezzate, senza la minima preoccupazione per gli effetti che produrranno. Dei tradimenti della moglie di Massimo Bossetti è entrato tutto negli atti processuali: nomi e cognomi degli amanti, luoghi degli incontri, date precise, ricevute dei motel e perfino la descrizione del tipo di attività sessuale. Vi basta? No, non basta. «Volete Amanda o Barabba?», scriveva solo pochi anni fa Oliviero Beha, commentando un’opinione pubblica spiazzata da imputati processati per anni in tv – Amanda Knox e Raffaele Sollecito – e infine assolti in tribunale.
Lo studio condotto da esperti di «litigation pr» in Germania, realizzato tra il 2006 e il 2009: è umanamente più difficile assolvere un imputato, anche se innocente, se questi è percepito colpevole dall’opinione pubblica
Casi come quelli di Knox e Sollecito ci insegnano che sono i media a rendere proverbiale un caso. Ma chi fa da spin doctor dei mezzi d’informazione? Difficile ricercarlo fuori del concerto degli inquirenti. Assistiamo, da Tangentopoli in poi con sistematicità, anche se prima bisogna citare almeno il caso Tortora, a udienze anticipate dal processo mediatico con un’orrenda riproposizione del modello ‘Forum’ in cui al posto di Rita Dalla Chiesa o Barbara Palombelli c’è il criminologo, l’esperto del Ris, il magistrato.
Ricordate i bambini di Rignano Flaminio, l’accanimento nei confronti dei presunti violentatori, degli orchi che seviziavano nell’asilo? Tutti assolti i presunti colpevoli.
Incide il circo (o meglio l’arena, meglio ancora il mattatoio) delle emozioni nel processo reale, davanti ad avvocato, pubblico ministero e giudice? Certo che incide. Lo dimostra uno studio condotto da esperti di «litigation pr» in Germania, realizzato tra il 2006 e il 2009, attraverso un sondaggio che ha coinvolto centinaia di operatori del diritto tra avvocati e magistrati e lo conferma una semplice adesione al principio di realtà: è umanamente più difficile assolvere un imputato, anche se innocente, se questi è percepito colpevole dall’opinione pubblica.Ma tutto è normale in un Paese che insegue – lo scriviamo con rispetto – la richiesta di giustizia che proviene dai parenti delle vittime. Ma quel che si chiede è un colpevole sempre e comunque, anche il primo che capita sotto mano, o un accertamento della verità rigoroso e aderente alla realtà fattuale? Difficile pensare a un trattamento sereno e serio dei casi, e l’elenco dei precedenti è sterminato. Basti pensare alle piantine della casa di Cogne, al teatro macabro del delitto di Avetrana, al caso Marta Russo, con la stupefacente sentenza di omicidio colposo, nei confronti di Giovanni Scattone, e di favoreggiamento in omicidio colposo, per Salvatore Ferraro.
Senza contrappesi, senza una strategia per la difesa il processo mediatico è vinto irrimediabilmente dall’accusa e il giornalismo italiano reagisce con il consueto smarrimento, la medesima mancanza di autocritica, l’incapacità di trarre un insegnamento da quanto accaduto. Il disorientamento – per carità di patria è giusto definirlo tale – è reso bene da Giangiacomo Schiavi che firma due pezzi sul Corriere della Sera, a distanza di due mesi. Titolo del 14 ottobre: «Il verdetto del buonsesno sulla carriera di Mantovani: non doveva arrivare lì». Titolo dell’11 dicembre: «L’assoluzione di Penati e le condanne anticipate». Il circo prosegue.(Andrea Camaiora, giornalista, esperto in litigation pr)