Una delle figure centrali del Novecento, l’intellettuale. Fosse esso ingaggiato dal potere, engagé da soi même, organico a una classe o disorganico a tutte: era in ogni caso l’unità minima dello Stabilimento culturale, intorno a lui nascevano i dibattiti, dietro di lui si schieravano le masse, grazie a lui si sarebbe potuta scatenare la rivoluzione. Insomma, da lui si dipanava la Storia.
Malgrado questa ponderosa centralità, l’intellettuale è sempre stata una bestia strana e molto complicata è sempre stata anche la sua definizione. Che cos’è infatti un intellettuale? Luciano Bianciardi, uno che intellettuale lo è stato quasi completamente a sue spese, dopo essersi posto questa stessa domanda nelle sue “Sei lezioni per diventare un intellettuale, dedicate in particolare ai giovani privi di talento”, pubblicate nel 1967 su ABC, si arrese all’indefinibilità del mestiere.
«A noi preme che il nostro giovane di media levatura arrivi il più possibile in alto, come intellettuale – scrive Bianciardi -. Se poi quel concetto resta indefinito, tanto meglio. La nebbia può essere dannosa, ma non sempre; a volte quando non c’è la si inventa, come nelle battaglie navali, per coprire i nostri movimenti al nemico».
E forse è proprio questa stessa nebbia che ha permesso alla figura dell’intellettuale di resistere al secolo che l’aveva santificata e approdare al nuovo millennio pronta a continuare al sua lunga tradizione brugliarda, confusa e indefinita anzi, probabilmente, ancor di più. Si sa, lo Zeitgeist è fatto di opinionismo tascabile, smartfoni, social network, mezzi e messaggi abbastanza “aerei”. All’occorrenza nebbiosissimi. Seppur nella foschia, si intravedono indicazioni e segnali che ci permettono di azzardare una mappa.
I movimentisti pasolinisti
Sono i figli involontari di PPP. E’ la figura dell’intellettuale engagé, organico, d’impegno, il cui obiettivo è guidare la propria classe di riferimento (anche se non è chiarissimo quale sia esattamente) e portarla al riscatto se non sociale civile ed etico. Questa categoria, nel 2016, è composta da intellettuali militanti che arrivano un po’ tardi rispetto al proprio – ripetiamo involontario – modello di riferimento.
Da 40 anni a questa parte il pubblico di massa è infatti esploso, si è disintegrato portandosi dietro la coscienza di classe e pure le classi che quella coscienza avrebbero dovuto sviluppare. Alla costante rincorsa di qualche indignazione da fomentare e di qualche tasto morale da cliccare, il movimentista pasolinista ha diversi modi di andare in cortocircuito.
C’è chi, come Roberto Saviano, insegue l’indignazione a colpi di retorica morale su vari campi dello scibile noir, ritrovandosi non a guidare, ma paradossalmente a inseguire, il noir, appunto, e il pubblico indignado e Zuccotti park. Nella stessa categoria non se ne abbiano a male mettiamo anche il “sabotatore” Erri De Luca, Lidia Ravera, assessora e “produttrice di reddito”, l’intransigente prof Christian Raimo e Giorgio Vasta. Tutti seduti davanti al fuoco sacro dell’indignez-vous, un fuoco che però, all’epoca dell’attivismo da tastiera, brucia solo e soltanto se innescato abbondantemente e costantemente da diavolina piccoloborghesista.
I mezzoculturisti
La seconda modalità di manifestazione è quella che ci arrischieremo a definire di origine italocalviniana e che sta avendo come esito l’intellettuale finto modesto, quello vincente perché dimesso, quello che, a dispetto del proprio ruolo, non vuole distinguersi, ma vuole “essere come tutti” e a tutti si rivolge. L’intellettuale di questo tipo parla per farsi capire da tutti, anche dalla nonna analfabeta. E poco importa se sua nonna era laureata, perché lui è come tutti, quindi, come tutti, ha la nonna analfabeta, che finisce ogni cosa nel piatto perché si ricorda di quando c’era la guerra. I mezzoculturisti sono tanti, forse addirittura più dei movimentisti. Ne fanno parte tutti coloro che glorificano l’esistente, i professori democaratici delle sorti progressive, gli assennati difensori di didascalie & biografie. La schiera è folta. Dal banco degli amputati di Fabio Fazio all’autorialità in camicia di Alessandro Baricco, dalla partitella in tv di Francesco Piccolo, alla lotta generazionale tra indivanati e prepensionati di Michele Serra, dai vecchissimi Nuovi argomenti di Dacia Maraini, fino al Nanni Moretti che smettendo di provare a dire qualcosa di sinistra, finalmente dice qualcosa: «Mia madre».
I dis-graziati
Alla lettera: privi di grazia, o meglio, senza quella machiavellistica fortuna che, quando c’è, aiuta. Come nella vita, anche nel mondo nello Stabilimento culturale c’è chi ci ha provato con tutte le forze, ma non è riuscito a centrare esattamente l’obiettivo, sbagliando a volte di parecchio e finendo a volte a vender perle ai polli, altre volte nel paradiso degli intellettuali dimenticati, l’oblio. Da quella gran rifiutatrice di Barbara Spinelli, talmente fedele a se stessa da tradire tutti gli altri, fino all’eterno quasi vincitore Antonio Scurati, dall’autocopista Umberto Galimberti, talmente scaltro da provare a plagiare se stesso senza tema d’esser scoperto, all’autoscontroso Gianni Riotta che, al riparo del suo posto conquistato nel Meridiano dei migliori raccontatori italiani del Novecento, nel terzo millennio ha già bannato buona parte dei suoi follower su Twitter. L’elenco prosegue con il caschetto bianco di Beppe Severgnini, il pizzetto luciferino-agli-agnolotti di Piergiorgio Odifreddi e la flemma nonnica di Corrado Augias.
Gli ultimi eburnei
La terza modalità di manifestazione è la variazione moderna di un grande classico: la torre d’avorio. Anzi, le torri d’avorio, visto che ognuno di questi arroccati intellettuali se ne sta sulla sua, di torre. E ben poche volte si guarda attorno cercando di parlare ad altri colleghi eburnei. I protagonisti di questa categoria, tutti rigorosamente nati prima del boom economico e da quell’esplosione di ricchezza cresciuti e ingrassati, seppur quasi tutto segnati da vistose piaghe da depulpito, hanno almeno il pregio di essere fedeli a se stessi, ovvero al Novecento, secolo di cui sono figli e che hanno seppellito da tempo. Saggi, solidi, competenti, dal sapere tondo come la pancia di un papà bonario e dall’eloquenza impeccabile, questi grandi maestri continuano a gridare i loro sermoni ai greggi sempre più minuti di un pubblico che si sta accomodando nella tomba. Esemplare in questa solitaria grandezza è Umberto Eco e il suo progressismo reazionario; ma insieme a lui ce ne sono molti altri. C’è Claudio Magris con la sua candidatura perenne al Nobel, l’infinita bibliografia di Piero Citati, le fughe liberatorie di Massimo Cacciari, ma anche le stilettate radical snob di Goffredo Fofi o, più snob che radical, di Alberto Arbasino. Sono gli ultimi di una genia la cui estinzione va di pari passo con l’annichilimento dei luoghi che li hanno allevati, le Accademie, di cui ultima resiste solo quella della Crusca, a dispensar simpatiche nazigrammate via Facebook.
I cani sciolti
Il vero intellettuale, scriveva qualcuno, è disorganico anche a se stesso. È contraddittorio, incontenibile, senza capi e senza chiese, è un cane sciolto, e come i cani sciolti di solito se la vive male. L’archetipo di questa bestia intellettuale schiava di tutti e serva di nessuno è proprio il Luciano Bianciardi che abbiamo citato all’inizio di questo articolo, anche se di uomini come lui abbiamo perso lo stampino. Il cane sciolto non ha padroni né in alto né in basso, non insegue niente che non abbia già dentro di sé, e se non è la fiammella dell’ethos è quella dell’eros. Dal situazionismo di Fulvio Abbate al pantagruelismo linguistico di Aldo Busi, dalla disillusione emigrata di Toni Negri a quella antimoderna di Massimo Fini, dall’oltranzismo incontinente e vitale di Giuliano Ferrara alla insondabile conversione da nobile paesano sciita di Pietrangelo Buttafuoco. Madamini, il catalogo è questo.