Per un certo periodo della mia vita sono stata una fan del sexting (per chi non lo sapesse, il sexting consiste nell’invio di messaggi testuali e/o fotografie dall’esplicito contenuto erotico).
Trovavo in codesta attività numerosi vantaggi, quali ad esempio scoprire in anticipo se l’equipaggiamento del soggetto in questione fosse meritevole al punto da separarmi temporaneamente dal mio divano, affrontare la fatica depilatoria e immolarmi allo sforzo di un aperitivo insieme.
Della serie: niente più cocenti delusioni del genere «Udio che figo che è» per poi trovare la sorpresa del minipeny che, davvero, specialmente se uno è alto un metro e ottantasette centimetri proprio non te l’aspetti (io, una volta, da giovane, mi sono messa a piangere di fronte a un minipeny, che quello basito mi chiese perché piangessi e io gli dissi che piangevo perché ero emozionata. Mentivo.
Piangevo per il suo minipeny e anche se erano eccessi di gioventù, dettati da un subbuglio ormonale incontrollabile, e anche se crescendo si comprende che le dimensioni non sono tutto, capite che sono esperienze che comunque ti segnano).
E’ un dilemma arcano, quello che c’è tra “fiCa” e “fiGa” che dice molto dell’autore, perché la C denota un profilo più trasversale, mentre se usa la G è facile che prediliga abitudini come la depilazione integrale
Un altro aspetto senza dubbio positivo del sexting era quello dialettico. Nel senso che attraverso le parole si poteva intuire il livello di “passionalità” dell’interlocutore (sentirsi dire «Te la leccherei per ore» tendenzialmente scongiurava il rischio di incappare in un Non-Leccatore); e anche le scelte semantiche non erano casuali (è un dilemma arcano, quello che c’è tra “fiCa” e “fiGa” che dice molto dell’autore, perché la C denota un profilo più trasversale, mentre se usa la G è facile che prediliga abitudini come la depilazione integrale).
Ultimo, ma non meno importante, leggere frasi come «quanto mi ecciti, mmm che ti farei, mmmm!». Faceva pur sempre bene all’ego (il livello di gradimento si misurava in “m”, quanto più esse erano numerose, tanto più era alto il grado di infoiamento procurato – al punto che l’eventuale espletamento del piacere sessuale era anticipato da un muggito tipo “mmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmm”).
E il giochino per un po’ ha retto. Finché, come spesso succede, non mi sono annoiata e non ho iniziato a mettere a fuoco delle valide ragioni per NON fare sexting, come:
Con l’avvento degli smartphone e dei sistemi di messaggistica istantanea, l’immagine ha preso il definitivo sopravvento sulla parola. Questa, che sembra una banalità, non lo è. Perché la parola, la narrazione, la descrizione, riuscivano a solleticare la fantasia e a farle riempire di dettagli (non necessariamente ultra-realistici in HD) l’idea erotica che si condivideva. Con la possibilità di inviare porno-selfie, invece, il sexting è definitivamente diventato una discutibile forma di pornografia amatoriale, avvincente fino a un certo punto, perché per vedere un pene barzotto che fuoriesce da un boxer a quadretti, posso anche andare su youporn a guardarmi Rocco, che con tutta l’action a contorno è senza dubbio più avvincente di “sta scrivendo…” su whatsapp.
Spesso il sexting è antecedente il primo incontro e ha la controindicazione di spoetizzare tutto, di rendere il sesso (quello vero) completamente scontato (e talvolta deludente), perché in fondo se ci siamo già detti e già visti come madre natura ci ha fatti, pur senza esserci incontrati mai, perché non dovremmo portare a definitivo compimento il gioco di ruolo dal vivo? Insomma, niente sorpresa, niente conquista, niente di nuovo da svelare, l’inedito si trasforma in un usato non garantito. E ciò mi ha indotta a preferire il “rischio minipeny”, pur di non uscire più con un uomo di cui avessi già visionato il membro virile sul mio iPhone.
Se il sexting prende il sopravvento sul sesso vero (nel senso che si fa più spesso o più facilmente il primo del secondo, fenomeno che per esempio interessa molto i millennials ma non solo) il risultato finale è negativo, riduttivo, parziale. L’attrazione stessa viene appiattita, snaturata e resa bidimensionale, monosensoriale, quando invece – come ben sappiamo – il sesso è un’attività che si fa con tutti i sensi insieme. È fatto di decine di sensazioni, stimoli, sollecitazioni. È fatto di odori, di sapori, di pelli, e sudori, e sguardi, e respiri. Tutte cose che in una foto proprio non ci stanno.
Arriva sempre un momento in cui l’altro ti chiede qualcosa tipo “Ti stai toccando?”. Talvolta anche in formula di imperativo categorico “Fai questo, fai quello”. Che, a un certo punto mi viene da dire: scusa, ma abiti a 7 km da casa mia, ma perché invece di scrivere queste robe non ti metti in macchina e non vieni da me. E se non hai la macchina usa la metro, il car sharing, il taxi, la bicicletta, lo skate o il monopattino. Ma la cosa più bella da fare col sesso è farlo, non parlarne, visto e considerato che, dopotutto, siamo persone, non bit e byte.
In ultimo, quando i miei amici maschi hanno iniziato a condividere con me le fotografie delle tette che ricevevano dalle tipe (perché, a onor del vero, c’è una gran voglia diffusa di mostrarsi in tutto il proprio adamitico splendore), ho iniziato a pensare alle mie tette forwardate a ignoti, e il pensiero mi ha talmente inibita che non le ho mandate mai più a nessuno.
Per tutte queste ragioni, ho a un certo punto perso interesse nel sexting, se non a integrazione di una solida e appagante sessualità reale con persone molto fidate. Perché la tecnologia è una cosa meravigliosa e nella vita è giusto sperimentare e non avere pregiudizi. Tuttavia vale la pena ricordare che certe robe è bello continuare a farle alla vecchia maniera, al fine ultimo di preservare il loro autentico fascino analogico.
Per lo stesso identico motivo per il quale è piacevole vedere un bel panzarotto in fotografia.
Ma mangiarne uno buono, è meglio.