GEOPOLITICAIl gioco sporco di Riad. In Medio Oriente ora è tutto più difficile

L'uccisione di Nimr al-Nimr esaspera il conflitto tra sunniti e sciiti. La collaborazione di fatto tra Iran, Russia e Stati Uniti contro l’Isis dannaggia i Sauditi, che reagiscono

La decisione dell’Arabia Saudita di giustiziare (con l’accusa di “sedizione”) l’imam sciita Nimr al-Nimr, arrestato per le proteste del 2012 in cui si chiedeva a Riad la fine della discriminazione delle minoranze religiose, ha avuto l’effetto di una bomba sulle relazioni già tese con l’Iran.
Immediata la dura protesta di Teheran. «Il sangue di questo martire versato ingiustamente mostrerà presto le sue conseguenze e la vendetta divina si abbatterà sui politici sauditi», ha dichiarato l’Ayatollah Khamenei, leader politico e spirituale della Repubblica Islamica iraniana.
L’ambasciata saudita di Teheran, nonostante gli inviti alla non violenza da parte del governo, è stata saccheggiata e data alle fiamme da manifestanti – poi dispersi dalla polizia – e proteste sono esplose anche in Libano, Bahrein, Yemen e Iraq.
La tensione tra Iran e Arabia Saudita, capofila rispettivamente del fronte sciita e sunnita nel mondo musulmano, è ai suoi massimi storici già da alcuni anni. La faida intra-religiosa che maschera le mire egemoniche di Teheran e Riad sull’islam politico, deflagrata nel dopo-Primavere arabe, ha prodotto terrorismo e guerra in tutto il Medio Oriente. Il rischio – dopo la morte di al-Nimr – di essere alle soglie di un’ulteriore escalation di violenze è, secondo gli esperti, molto alto.

«L’Arabia Saudita punta a tenere alto il livello dello scontro», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici «L’esecuzione di Nimr al-Nimr mira quindi a causare una reazione iraniana, magari sproporzionata, che danneggi la collaborazione con gli Usa»

In Siria Riad sostiene i gruppi ribelli sunniti – spesso anche jihadisti – che cercano di rovesciare la dittatura alawita di Assad, alleata di Teheran e da questa sostenuta. In Yemen è l’Iran a foraggiare l’insorgenza sciita degli Houthi che ha spaccato il Paese, mentre l’Arabia Saudita è intervenuta direttamente con uomini e bombardamenti per reprimerla. In Iraq, Libano, Bahrein e Afghanistan le due potenze armano milizie religiose (e gruppi terroristici) per danneggiarsi reciprocamente. Lo stesso Stato Islamico – sunnita – pare abbia in passato beneficiato del sostegno di Riad. «L’Arabia Saudita punta a tenere alto il livello dello scontro», spiega Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «In Iraq e in Siria quello che sta succedendo è una collaborazione di fatto tra Iran, Russia e Stati Uniti – uniti contro lo Stato Islamico e, direttamente o meno, a sostegno di Assad -, il che è innegabilmente un danno per gli interessi di Riad. L’esecuzione di Nimr al-Nimr mira quindi a causare una reazione iraniana, magari sproporzionata, che danneggi la collaborazione con gli Usa – con cui è in ballo anche l’accordo sul nucleare – e che alzi il livello dello scontro religioso. Inoltre la leadership saudita è giovane (il nuovo Re è in carica da circa un anno ndr.) e deve accreditarsi come guida del mondo sunnita».

Questo episodio chiude la porta, almeno fino all’elezione del prossimo presidente americano, alle speranze di una trattativa tra Iran e Sauditi sulla spartizione delle reciproche sfere di influenza in Medio Oriente

Delle 47 condanne a morte eseguite il 2 gennaio da Riad la maggior parte riguarda terroristi sunniti legati ad Al Qaeda. Secondo alcuni analisti l’uccisione dell’imam sciita è dunque anche una compensazione che l’Arabia Saudita starebbe offrendo al suo schieramento, non sempre ostile al jihadismo ed al qaedismo. Le conseguenze a livello regionale rischiano di essere molto gravi, con l’Iran obbligato a reagire per il suo ruolo di guida degli sciiti (anche se la sua ala moderata teme di danneggiare i progressi diplomatici a livello internazionale). «Non credo possa scoppiare una guerra aperta tra i due Stati, ma è probabile un peggioramento delle violenze in tutte le proxy war in corso. Questo episodio» conclude Neri, «temo chiuda la porta – almeno fino all’elezione del prossimo presidente americano – alle speranze di una trattativa tra Iran e Sauditi sulla spartizione delle reciproche sfere di influenza in Medio Oriente, unica soluzione pacifica alla crisi attuale».

La frattura interna al mondo islamico risale al 680 d.C, quando a Karbala il nipote di Maometto, Alì, fu trucidato con la famiglia e il suo seguito dalle truppe di Muʿāwiya ibn Abī Sufyān, secondo califfo Ommayade. I sostenitori del primo – una minoranza – divennero gli sciiti, e quelli del secondo i sunniti. Nel tempo i due rami dell’Islam si differenziarono anche per varie questioni religiose (ad esempio gli sciiti sono avventisti, hanno un clero strutturato e venerano “i 12 Imam”). Da sempre tra i due gruppi non corre buon sangue, ma è nel ‘900 che la situazione peggiora drasticamente. Negli anni ’20 del secolo scorso l’ascesa dei Saud come leader politici e religiosi del sunnismo (portatori di una visione fanatica, il wahabismo, che considera gli sciiti come eretici) invece che degli Hashemiti (più moderati, e che all’epoca propugnavano un pan-arabismo che andasse oltre le differenze tra sunniti e sciiti) acuì le tensioni all’interno dell’Islam. La Rivoluzione Khomeinista del 1979, poi, fece della teocrazia iraniana un contraltare alle pretese egemoniche sull’Islam di Riad. Da quel momento lo scontro non si è mai sopito, ma è dopo le Primavere arabe – con lo sfaldamento di un ordine regionale che aveva retto per decenni – e dopo l’accordo sul nucleare con l’Iran (che ridarà a Teheran lo status di potenza regionale) che è esploso con una nuova devastante violenza.

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