La Cina, perfino in crisi, in molte parti del mondo si può permettere cose che altri non possono permettere. Per cominciare, si può permettere di consolidare le relazioni con la Russia di Putin sotto sanzioni e di investirci 80 miliardi di dollari senza danneggiare i propri rapporti con l’Occidente. Può occupare i mercati e influenzare i governi dell’Asia centrale, ex “cortile di casa” russo, senza che Putin smetta per questo di cercare nuovi e più stretti legami con Pechino. Infine, in uno dei momenti di massima tensione tra i due rivali storici Arabia Saudita e Iran, il presidente Xi può fare un viaggio in Medio Oriente atterrando prima a Riyadh e poi a Teheran (e nel mezzo al Cairo) stringendo mani e chiudendo accordi per miliardi di dollari senza che nessuno ne abbia a male.
Come si spiega questa apparente capacità cinese di schivare e ignorare con apparente eleganza conflitti e tensioni? James Carville risponderebbe probabilmente con la sua frase più famosa: «It’s the economy, stupid». E avrebbe ragione.
Nonostante l’apparente affanno in cui versa il sistema economico cinese, la Cina è ancora uno dei principali volani della crescita mondiale, è potenzialmente il più grande mercato del mondo e uno dei più grandi investitori. Soprattutto, è e sarà a lungo il principale driver della domanda petrolifera internazionale. Questi tre semplici fattori fanno in modo che (quasi) tutti abbiano bisogno della Cina. Ma il terzo, la crescente fame energetica cinese, fa in modo che anche la Cina abbia bisogno di qualcun altro, in primo luogo del Medio Oriente.
Tutti hanno bisogno della Cina. Ma la crescente fame energetica cinese fa in modo che anche la Cina abbia bisogno di qualcun altro, in primo luogo del Medio Oriente
Le crisi scoppiate dopo la Primavera araba, in primis quella siriana, hanno dimostrato la crescente riluttanza statunitense a impegnarsi nella regione, e la volontà di ritirarsi quanto più possibile dagli intricati affari mediorientali. Gli Stati Uniti sono quasi indipendenti energeticamente, e la stabilizzazione della regione – spesso in seguito a destabilizzazioni da loro stessi causate – è costata loro trilioni di dollari, una spesa che sta diventando sempre meno utile per gli interessi americani. Il disimpegno di Washington ha portato al riaffermarsi del protagonismo di potenze regionali vecchie e nuove come la Turchia e, soprattutto, come i due rivali di sempre Arabia Saudita e Iran. Ha visto anche il ritorno in grande stile di un vecchio protagonista non proprio regionale, ma che nei suoi tempi d’oro da quelle parti aveva fatto il bello e cattivo tempo: la Russia di Putin.
Tutti ritorni che si sono fatti sentire, soprattutto sulla pelle dei siriani e degli yemeniti, e che stanno cambiando profondamente equilibri che avevano resistito per decenni. Ma c’è qualcuno che già da prima del disimpegno americano si era affacciato dalle parti di Hormuz, seppur in modo molto più discreto: la Cina.
Già dagli anni Novanta Pechino coltiva infatti strette relazioni con numerosi Stati della regione, a cominciare dagli Stati del Golfo
Già dagli anni Novanta Pechino coltiva infatti strette relazioni con numerosi Stati della regione, a cominciare dagli Stati del Golfo. Ha relazioni strette con l’Arabia Saudita, tanto che il primo viaggio del defunto re Abdallah fu proprio in Cina, e con l’Iran, con il quale ha continuato ad avere stretti rapporti economici nonostante le sanzioni. Aveva enormi affari nella Libia di Gheddafi dalla quale nel 2011 dovette evacuare ben 35mila lavoratori, e intrattiene fitti rapporti anche con Israele, che in passato a riguardo ha dovuto perfino tranquillizzare il suo principale sponsor americano. Nonostante le apparenti contraddizioni fra questi legami, Pechino ha sempre accuratamente evitato di farsi coinvolgere nelle diatribe regionali. Quando era l’unico grande partner economico e militare dell’Iran durante l’era Ahmadinejad, Pechino ha sempre reagito con irritazione ai tentativi retorici dell’ex presidente di far apparire la Cina come proprio “compagno d’armi” nella resistenza all’Occidente, così come ha pacatamente resistito a qualunque pressione saudita o americana per la cessazione dei rapporti con Teheran. Ha inviato armi a Gheddafi durante il conflitto civile del 2011, ma non ha posto alcun veto alla richiesta occidentale di intervenire con bombardamenti aerei. Infine, durante la lunga guerra siriana ha sempre appoggiato da dietro le quinte la posizione iraniana e russa di sostegno ad Assad, e ha ospitato incontri segreti tra le diverse fazioni. Nel 2015 il presidente cinese ha cancellato la sua prima visita a Riyadh che sarebbe dovuta avvenire poco dopo l’inizio dei bombardamenti sauditi in Yemen per non offendere la leadership iraniana, sponsor degli Houthi contro i quali i bombardamenti sono rivolti. Questo non ha però impedito al ministero degli esteri cinese di esprimere condanna contro gli Houthi e di invocare il ritorno del governo Hadi, appoggiato dai sauditi. Posizioni apparentemente al di sopra delle parti e che sembrano rispondere due semplici criteri: sovranità e stabilità.
Oltre il cinquanta per cento delle vitali importazioni petrolifere cinesi passa per lo Stretto di Hormuz. Tensioni e conflitti in quest’area avrebbero quindi un effetto immediato e devastante sull’economia cinese già in difficoltà. Allo stesso modo, una economia cinese danneggiata da tali conflitti farebbe crollare ulteriormente la domanda di petrolio di cui è il driver principale. Se c’è qualcosa che i due “arci-rivali” Iran e Arabia Saudita hanno quindi in comune – anch’essi economicamente nei guai a causa dei bassi prezzi petroliferi – è quindi l’interesse a non danneggiare l’economia cinese con tensioni e conflitti. Una realtà che da sola spiega gran parte della capacità cinese di volare sopra i conflitti regionali senza inimicarsi nessuno e di favorire la stabilità sopra qualunque altra considerazione.
In previsione del disimpregno degli Usa, Pechino ha silenziosamente costruito la sua prima base navale militare fuori dall’Asia, a Gibuti. Una discrezione che stride con dispiegamenti ben più rumorosi e pubblicizzati come l’ampliamento della presenza russa in Siria
Almeno per adesso. Perché se l’influenza del suo potere economico ha finora permesso a Pechino di disinteressarsi dei conflitti regionali è stato soprattutto grazie alla presenza militare americana nel Golfo (la quinta Flotta e i comandi di stanza in Bahrein e Qatar), finora nel bene e nel male il principale fattore di stabilità nell’area. Un ulteriore disimpegno americano potrebbe mettere fine a questo equilibrio e costringere la Cina a una maggiore proattività e, chissà, costringerla anche a prendere delle parti di qualcuno di tanto in tanto. Probabilmente in previsione di ciò Pechino ha silenziosamente costruito la sua prima base navale militare fuori dall’Asia, a Gibuti, a pochi passi dal Golfo di Aden. Una discrezione che stride con dispiegamenti ben più rumorosi e pubblicizzati come l’ampliamento della presenza russa in Siria. È infatti improbabile che l’influenza economica possa completamente sostituire quella militare, e i cinesi sembrano averlo intuito. Ma che in Medio Oriente i cinesi puntino assai più sull’economia che sui cannoni è chiaro da tempo, e forse anche una buona notizia per la regione. L’economia vuole stabilità. E la stabilità dei regimi, soprattutto se autocratici, ha bisogno di prosperità economica. Le primavere arabe hanno dimostrato come questa lezione fatichi a essere assimilata dai leader mediorientali, tradizionalmente più inclini a essere attratti dalla forza delle armi (oggi russe, ieri americane). Ma, parafrasando Mao, la confusione è grande sotto il cielo del Medio Oriente, e le mentalità potrebbero cambiare velocemente, portando sorprese. Non subito, forse. Ma, dicono gli esperti, se c’è qualcosa che non manca alla Cina è proprio il tempo.