L’impoverimento non crea terroristi. Però aiuta

Perché e in che modo la deprivazione radicalizza un’individuo? E perché sempre più spesso, anche in Occidente, radicalizzazione diventa sinonimo di islamismo? Un dibattito cruciale, per capire come nasce il terrorismo, dentro la nostra società

Dopo i tragici fatti di Parigi, papa Francesco ha affermato che il terrorismo «nasce prima di tutto da povertà e frustrazione». Diversi commentatori si sono affrettati a rispondere al papa, in un gioco delle parti diventato abbastanza prevedibile. In particolare sul Foglio Marco Valerio Lo Prete ha citato il famoso studio di Alan Krueger “What makes a terrorist” che ha dimostrato già dieci anni fa la totale mancanza di correlazione empirica fra i due fenomeni.

In Italia, per ora, il dibattito sembra essersi spento. È proseguito però in Francia dove a esprimersi sono stati due tra i più noti studiosi di islamismo a livello mondiale: Olivier Roy e Gilles Kepel. Il primo all’inizio di dicembre ha pubblicato un lungo editoriale su Le Monde affermando che non staremmo assistendo alla “radicalizzazione islamica della società” ma alla “islamizzazione della radicalizzazione sociale”. Non sarebbe quindi una certa ideologia islamista che porta alcune persone a radicalizzarsi. La radicalizzazione sarebbe già presente, e in un secondo momento, per alcuni, essa prenderebbe la strada e i simboli dell’estremismo islamico.

A fargli eco qualche giorno più tardi è stato Gilles Kepel, che durante una trasmissione radiofonica ha affermato che il fenomeno del radicalismo islamico ha le stesse radici di altri tipi di radicalismo presenti nelle società europee, a cominciare da quello che porta la gente ad appoggiare movimenti populisti nazionalisti come il Front National di Marine Le Pen. Tale affermazione, espressa a pochi giorni dal secondo turno delle amministrative in Francia, ha scatenato la furiosa reazione della Le Pen e dei suoi sostenitori. Ma come? Proprio coloro che si pongono come i più intransigenti paladini della patria e della “francesità” avrebbero le radici del loro agire nelle stesse dinamiche del terrorismo jihadista?

Non stiamo assistendo alla “radicalizzazione islamica della società” ma alla “islamizzazione della radicalizzazione sociale”.

Per comprendere questa apparente contraddizione bisogna prima di tutto chiedersi se davvero ricchezza e povertà assolute che contano per l’individuo.

Secondo una certa scuola di psicologia non sarebbe così: i singoli individui non formulerebbero giudizi sulla propria condizione usando dati assoluti, ma basandosi su valori di comparazione soggettivi. Una persona non si sente necessariamente povera perché su scala mondiale si trova sotto una certa soglia di reddito. Esattamente come un precario italiano che sopravvive con 900 euro al mese difficilmente si sente particolarmente abbiente, nonostante secondo gli stessi indici si dovrebbe considerare il fortunato detentore di un reddito “medio-alto”. Questo per un semplice motivo: l’individuo formula giudizi sulla propria condizione socioeconomica comparandola a standard soggettivi che hanno a che fare con le condizioni degli altri individui della sua comunità, con le condizioni economiche delle generazioni che lo hanno preceduto e, in generale, con aspettative che la società in cui vive gli ha indotto nel tempo. Il sentimento legato alla mancata realizzazione di tali aspettative ha preso nell’ambito della psicologia e degli studi di socio-economia una definizione precisa: deprivazione relativa.

Negli ultimi decenni questo tipo di frustrazione è stato oggetto di studi in campi sociali più vasti. Secondo Runcimann una differenza fondamentale sarebbe quella tra la frustrazione generata da una ingiustizia vissuta solo a livello individuale e una invece vissuta al livello di un intero gruppo sociale. La prima condurrebbe a fenomeni di devianza individuale – piccoli crimini, uso di droghe – mentre la seconda sarebbe associata ad azioni collettive come la partecipazione a movimenti di protesta, a partiti politici o altre organizzazioni estreme più o meno violente. Questo tipo collettivo di deprivazione relativa sarebbe un’evoluzione del primo: a un certo punto un individuo che trova la propria situazione personale ingiusta potrebbe arrivare a intendere tale ingiustizia come rivolta a lui come membro di un preciso gruppo sociale.

Se questo passaggio dall’”individuale” al “collettivo” è abbastanza logico nei casi di una discriminazione dovuta a tratti personali precisi come il colore della pelle o i gusti sessuali, in altri casi richiede una elaborazione più complessa. Una persona potrebbe infatti sentirsi membro di un gruppo “oppresso” da un altro gruppo “oppressore” in quanto membro di una classe sociale (il proletariato oppresso dal padronato), o come membro di un gruppo religioso (i musulmani del mondo oppressi dall’Occidente infedele e colonialista) o come membro di un popolo nazionale deprivato della propria ricchezza da una elite corrotta (il popolo oppresso dal sistema bancario internazionale e dai politici sul suo libro paga). In questi casi l’individuo compie una scelta precisa su come definire il gruppo sociale oppresso a cui appartiene. Un “proletario” potrebbe infatti essere anche un musulmano che però sceglie di dare priorità alla sua identità “di classe”, così come un “italiano” potrebbe essere allo stesso tempo un “proletario” e un “musulmano”.

Il momento di scelta della propria identità collettiva è il passaggio più controverso e delicato. Una persona sceglie sostanzialmente nel “mercato ideologico” corrente, ovvero tra il tipi di identificazione più comuni in un dato momento storico, ed è spesso guidato dalle scelte compiute precedentemente da individui percepiti come simili. Se molti conoscenti hanno scelto di aderire a un certo gruppo religioso è facile che il soggetto decida di identificarsi con la causa dei fedeli di una data religione oppressi nel mondo. Se invece hanno scelto di aderire a un gruppo di estrema destra è facile che il soggetto incanali la propria frustrazione identificandosi con la nazione messa in pericolo dall’immigrazione clandestina e dagli interessi sovrannazionali. Se le dinamiche che portano a queste scelte hanno origine nello stesso tipo di radicalizzazione sociale, è però innegabile che esse presentino differenze sostanziali, a cominciare dall’uso della violenza.

In un paese come la Francia, dove il principale contenitore del rancore sociale in questi anni è diventato un partito xenofobo e nazionalista, è quindi logico che la radicalizzazione di membri delle minoranze etnico-religiose non possa trovare sfogo in esso ma debba cercare altre strade

È vero che certi impianti ideologici si prestino più esplicitamente all’uso della violenza. Nella retorica della Jihad, così come in certe teorizzazioni di estrema destra l’uso della violenza è quasi strutturale. È però vero che esso non è necessariamente automatico. Nel 2005 il professore di psicologia Fathali Moghaddam cercò di spiegare il processo di radicalizzazione che culmina con l’uso della violenza attraverso la metafora di una “scala” in cui il primo gradino è popolato da tutti gli individui che nel mondo si sentono vittime di ingiustizia, mentre l’ultimo è costituito dai pochi che arrivano a giustificare e praticare la violenza verso i soggetti che ritengono responsabili della loro condizione. Nei gradini precedenti i soggetti “nemici” vengono progressivamente disumanizzati e descritti non più come portatori di idee e interessi diversi ma legittimi, ma solo come soggetti corrotti al servizio di interessi intrinsecamente maligni.

In un paese come la Francia, dove il principale contenitore del rancore sociale in questi anni è diventato un partito xenofobo e nazionalista, è quindi logico che la radicalizzazione di membri delle minoranze etnico-religiose non possa trovare sfogo in esso ma debba cercare altre strade, incappando spesso in gruppi più estremi in mancanza di vie di mezzo.

Infine, è importante sottolineare come il passaggio dall’individuale al collettivo non sia assolutamente automatico. Molte persone restano infatti al primo gradino sfogando la propria frustrazione con atteggiamenti di devianza personale. Il passaggio fondamentale dall’individuale al collettivo richiede infatti il tempo e i mezzi per comprendere una certa lettura della realtà e dell’ingiustizia di cui un soggetto si sente vittima. Insomma, il passaggio da un sentimento di deprivazione individuale a uno di deprivazione collettiva avviene più facilmente in soggetti non ai limiti del sostentamento e che hanno accesso a istruzione e mezzi di comunicazione. La piccola borghesia, falcidiata dalla crisi e dai processi di globalizzazione, diventa così oggi il principale serbatoio dei movimenti antisistema, pacifici o violenti. Ma non necessariamente l’unico.

La radicalizzazione, insomma, è sempre presente perché innanzi tutto legata alle condizioni del singolo individuo spesso indipendenti dal resto della società. Ma è assurdo sorprendersi se le sue forme pacifiche (populismo, nazionalismo, xenofobia) così come quelle violente (rivolte sociali, terrorismo) aumentino esponenzialmente in periodi di crisi economica e di aumento delle disuguaglianze. Ed è altrettanto assurdo sorprendersi se i protagonisti di questi fenomeni siano soprattutto giovani istruiti disoccupati o precarizzati. Comprendere questi passaggi conferisce significato e profondità alla definizione di Olivier Roy e ciò che essa comporta per la lotta alle forme violente di radicalizzazione. Combattere l’ultimo gradino, l’estremismo islamista, è importante. Agire sul primo, la disuguaglianza e il rancore sociale, è fondamentale.

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