L’uomo a cui stiamo affidando il futuro della Libia

Mahdi al-Barghati, il ministro della Difesa del nuovo governo di unità nazionale in Libia, è l’uomo che può mettere d’accordo tutte le fazioni. Se riuscisse nell’impresa, l’Occidente si troverebbe con un vero esercito a combattere l’Isis via terra. A quel punto, potrebbero cominciare i bombardamenti

Il suo nome è Mahdi al-Barghati. È il nuovo ministro della Difesa della Libia, dell’unico governo (ora) legittimo agli occhi dell’Occidente, quello di unità nazionale, annunciato martedì 19 gennaio con un tweet di sollievo dall’inviato Onu nel Paese africano, il tedesco Martin Kobler. Resta da vedere se quel governo resterà sulla carta o riuscirà effettivamente a prendere possesso dell’ex colonia italiana, ottenendo quel consenso sul territorio senza il quale ogni politica è destinata a fallire.

I tempi stringono, lo Stato Islamico avanza, lancia attacchi ai terminal petroliferi, per sabotare l’economia gestita da governi “impuri” – la Libia ne aveva (o ne ha ancora?) due, uno a Tripoli, l’altro a Tobruk – e la comunità internazionale parla apertamente di un intervento armato contro il Califfato. L’Italia pone come precondizione la richiesta di sostegno da parte del governo unitario libico, per evitare di aggiungere caos al caos, altri Paesi, come la Francia, sembrano muoversi in maniera più autonoma, non volendo dipendere dai tempi estenuanti della politica africana. Ma adesso questo governo unitario c’è: 32 nomi, una lista compilata con 48 ore di ritardo rispetto alla deadline prevista e con l’ausilio del sempre valido manuale Cencelli. Il nome di Barghati, sottolinea Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Relations, uno dei massimi esperti di Libia, «potrebbe rappresentare la quadratura del cerchio». Barghati, infatti, è un militare che ha sì combattuto l’Isis a Bengasi, ma ha preso le distanze dal generale Haftar, uno dei principali ostacoli all’accordo tra i due governi (Haftar, che guida le forze dell’Est libico, è legato a Tobruk ed è detestato dal fronte di Tripoli). «La nomina di Barghati», prosegue Toaldo, «può rappresentare la garanzia che la Libia avrà un vero e proprio esercito, e non una collezione di milizie, come chiede l’Est. Al tempo stesso, però, Haftar è legato al presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, per cui senza il consenso del generale diventa più difficile, per il governo, ottenere la fiducia da parte dell’assemblea legislativa. Impossibile no, ma più complicato certamente».

«Barghati potrebbe rappresentare la quadratura del cerchio: ha sì combattuto l’Isis a Bengasi, ma ha preso le distanze dal generale Haftar, uno dei principali ostacoli all’accordo tra i due governi»


Mattia Toaldo, analista dell’European Council on Foreign Relations

La roadmap libica, infatti, prevede che adesso l’esecutivo riceva l’approvazione, entro dieci giorni, del Parlamento di Tobruk. Si tratta di un passo decisivo per avere piena legittimità. Al tempo stesso, perché il governo controlli effettivamente il Paese, bisogna creare le condizioni di sicurezza affinché possa installarsi a Tripoli. Toaldo raccomanda prudenza ma individua un aspetto positivo nella scelta del nuovo ministro della Difesa: «Il ridimensionamento di Haftar potrebbe spostare parte consistente delle forze di Tripoli a favore dell’accordo e consentire l’ingresso del governo nella capitale. Tutto dipenderà dai segnali che darà il nuovo esecutivo».

Sullo sfondo c’è il grande spauracchio, lo Stato Islamico. Un effettivo governo di unità nazionale sarebbe lo strumento più efficace contro il Califfato, nell’ottica che debbano essere i libici a combatterlo. Spiega l’analista dell’Ecfr: «L’esecutivo così composto potrebbe portare a un’intesa fra le tre forze che adesso fronteggiano l’Isis. Le guardie petrolifere di Ibrahim Jadran, per le quali lo Stato Islamico ed Haftar sono ugualmente nemici. Le milizie di Misurata. E quei generali che muovono guerra agli islamisti a Bengasi, ma che non stanno con Haftar. Ecco, se il nuovo governo desse segnali alla comunità internazionale che un coordinamento tra queste tre forze è possibile, questo cambierebbe le dinamiche dell’intervento militare contro il Califfato, che non solo diventerebbe ancora più probabile, ma si svolgerebbe secondo le modalità auspicate: copertura aerea dell’Occidente, boots on the ground libici».

Se si trovasse l’accordo tra le tre fazioni rivali, l’intervento militare contro l’Isis non solo diventerebbe ancora più probabile, ma si svolgerebbe secondo le modalità auspicate in Europa e Stati Uniti: copertura aerea dell’Occidente, boots on the ground libici

Questa sarebbe l’opzione migliore. Ma c’è una versione più pessimista sul futuro della Libia. «Nel caso in cui il Parlamento di Tobruk non dovesse approvare l’accordo, non ci sarebbe un governo nella pienezza dei poteri, il che creerebbe un problema politico. La comunità internazionale, per intervenire in Libia, dovrebbe fare appello a una ‘soluzione creativa». Qualcuno, come la Francia, o la Gran Bretagna, potrebbe pensare che la forma non valga la sostanza. «Le possibilità di un intervento unilaterale adesso sono state spinte un po’ più in là. È improbabile che durante i dieci giorni concessi a Tobruk l’Occidente si muova in questo senso. Il problema è che le deadline in Libia vengono costantemente spostate, per cui la pazienza occidentale si potrebbe logorare. Il prossimo vertice sull’Isis di febbraio (a Roma, il 2, ndr) sarà probabilmente un giro di boa».

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