L’industria dell’energia nucleare non se la passa bene. Conta ancora per l’11 per cento circa nella produzione mondiale di energia, ma era il 17,6 per cento nel 1996. Il suo peso è in calo anche in alcuni paesi con una storica presenza nel settore: nel 2014, per la prima volta da decenni, l’energia prodotta dal nucleare nel Regno Unito è stata superata dalle rinnovabili, incluso l’idroelettrico.
Dal punto di vista finanziario, un segnale emblematico è arrivato dalla Francia. Nell’anno appena concluso, la multinazionale francese Areva – una delle maggiori società che costruiscono reattori – è andata di fatto in bancarotta. Dopo aver chiuso un altro bilancio in rosso, con un passivo totale che ammonta a parecchi miliardi di euro, la società a controllo pubblico ha avuto bisogno del salvataggio da parte del colosso dell’energia Edf, anch’esso di proprietà dello stato francese.
Non si tratta solo del prezzo del petrolio ai minimi: per diversi aspetti, i reattori sono figli di un modello economico che potrebbe semplicemente non essere più al passo con i tempi. Come documenta da diversi anni il World Nuclear Industry Report, l’industria nucleare promette da troppo tempo svolte tecnologiche e abbattimenti dei costi senza mantenere, mentre le rinnovabili, fotovoltaico ed eolico in testa, hanno preso il testimone nella corsa per fonti di energia pulita ed economica.
Nessuno dei nuovi reattori di terza generazione, che negli anni Novanta fecero rinascere grande speranza nel settore, è ancora entrato in funzione; la loro costruzione – ce ne sono ben 18 intorno al mondo – sta subendo ritardi e aumenti di costi. Nel frattempo, l’età media degli impianti si alza. A metà del 2015 era di quasi trent’anni.
Nonostante tutto, il mondo non può ancora dimenticarsi del nucleare. Oggi ci sono poco meno di quattrocento reattori in attività in trenta Paesi, e se il numero è lontano dal picco di 442 attivi nel 2002, questo è dovuto alla fermata delle centrali giapponesi all’indomani del disastro di Fukushima.
La Cina ha 27 reattori in attività e 24 in costruzione – con parecchi altri in arrivo
Nel mondo ci sono 62 reattori in costruzione. Anche in questo caso, le novità maggiori sono in Oriente. Dopo oltre un anno senza energia prodotta dal nucleare – per la prima volta da mezzo secolo – a fine 2015 il Giappone ha riattivato due centrali, ma continuano le proteste e le azioni legali per cercare di evitare il piano di riattivazioni del governo Abe.
Nel frattempo, al di là del mar del Giappone, il paese in più forte controtendenza rispetto al resto del mondo è la Cina, che ha 27 reattori in attività e 24 in costruzione (con parecchi altri in arrivo). Quasi tutti i reattori cinesi hanno cominciato a produrre elettricità dopo il 2000, e anche se il programma ha attratto alcune critiche anche in Cina per il ritmo forsennato a cui sta venendo portato avanti, non sembra intenzionato a fermarsi. Ma se nel 2014 la Cina ha speso oltre 9 miliardi di dollari nel settore nucleare, ben 83 miliardi sono andati a solare ed eolico, un terzo degli investimenti mondiali nelle energie rinnovabili.
Anche se sembra passata un’eternità, l’Italia è stata vicina ad essere nuovamente interessata da tutto questo. Quando, nel 2011, l’incidente di Fukushima e il successivo referendum misero la parola fine a un ritorno del paese nel campo, era già stato firmato un accordo con la Francia per costruire quattro reattori di terza generazione e una società creata appositamente per gestire lo sviluppo nucleare italiano aveva assunto circa centocinquanta persone.
Nel 2011, l’Italia è stata molto vicina a rientrare nel nucleare. Ma il momento delle decisioni importanti non è ancora passato
Che lo si voglia o no, proprio il 2016 sarà l’anno in cui il nucleare dovrà tornare ad essere un tema discusso anche da noi. I motivi arrivano da lontano. Con il referendum del novembre 1987, l’Italia è stata il primo paese del mondo con un progetto nucleare avanzato a decidere di spegnere subito tutte le sue centrali, senza aspettare la fine della vita degli impianti (quello di Caorso, la più nuova e la più grande delle quattro centrali italiane, era in esercizio solo da cinque anni).
Ma spegnere le centrali non è stato sufficiente a chiudere i conti con gli oltre vent’anni del nostro passato nucleare: gli impianti sono rimasti lì, in attesa di decidere che cosa farne. Alla fine degli anni Ottanta, la strategia più accreditata a livello internazionale era la cosiddetta custodia protettiva passiva, che prevedeva di mantenere le centrali così com’erano per almeno cinquant’anni, in modo che il decadimento facesse sparire gran parte della radioattività, e solo dopo procedere allo smontaggio.
Il problema era che così facendo si sarebbe persa l’esperienza di chi aveva lavorato nelle centrali e ne conosceva tutti i problemi e le caratteristiche emerse in anni di attività. A distanza di decenni si sarebbe dovuto ricominciare a conoscere l’impianto da zero. Alla fine degli anni Novanta si decise allora di passare al cosiddetto decommissioning accelerato, che prevede di smontare le centrali poco dopo il loro spegnimento definitivo. La nuova strategia venne adottata anche dall’Italia.
Per molto tempo, i lavori sono andati a rilento, anche perché una domanda cruciale restava senza risposta: dove sarebbero andati a finire i rifiuti radioattivi prodotti dal decommissioning? Solo negli ultimi anni l’Italia ha fatto i passi decisivi per deciderlo. Come raccomanda anche la Commissione europea, tutti i paesi con una significativa produzione di rifiuti radioattivi – dalle centrali energetiche, ma anche da fonti mediche o di ricerca – devono dotarsi di un deposito unico nazionale, che li raccolga in una sola struttura.
Il deposito italiano ha avuto un iter travagliato. L’errore da non ripetere è quello del 2003, quando il governo Berlusconi, con il decreto n. 314 del 13 novembre, individuò in un giacimento di salgemma nel territorio di Scanzano Jonico, in Basilicata, il luogo dove costruirlo, dando mandato a Sogin – la società che gestisce oggi gli impianti nucleari italiani – di completare la struttura entro cinque anni. La decisione improvvisa e del tutto calata dall’alto causò due settimane di proteste molto partecipate e pacifiche che costrinsero il governo a fare marcia indietro.
La Cnapi è in possesso del governo dall’inizio dell’anno. Gli addetti ai lavori si aspettavano la sua pubblicazione già durante l’estate 2015
Per molto tempo la questione tornò a essere dimenticata. Ma quando un altro governo Berlusconi, nel 2011, prese i primi provvedimenti legislativi per riportare l’Italia nel nucleare, delineò anche i criteri di base per un approccio diverso alla risoluzione del problema del deposito.
Il territorio nazionale doveva essere interamente mappato in base ai criteri che regolavano la scelta del sito: lontananza da corsi d’acqua e centri abitati, assenza di rischio sismico, persino mancanza di risorse minerarie importanti nel sottosuolo. Questo lavoro ha impegnato decine di persone all’interno di Sogin dal 2011 a oggi.
Con la collaborazione di diversi enti universitari e di ricerca nazionali, e confrontandosi con i paesi europei che hanno già depositi operativi o in avanzata fase di realizzazione (Francia, Spagna, Belgio), la società pubblica è arrivata a un progetto preliminare e a una carta nazionale delle aree potenzialmente idonee, la Cnapi. Questa carta è stata consegnata al governo, che deve concedere il nulla osta per la sua pubblicazione, all’inizio del 2015.
Gli addetti ai lavori si aspettavano il nulla osta già nel corso dell’estate scorsa, ma il tema deve essere sembrato parecchio delicato per il governo in carica. Non è chiaro quando verrà resa pubblica la carta – che contiene alcune decine di aree idonee – ma difficilmente il 2016 potrà passare senza quella decisione.
L’Italia ha già perso molto tempo e anche Sogin ha passato qualche momento difficile. Nel maggio 2014 Giuseppe Nucci, amministrato delegato della società di Stato fino al 2013, era finito travolto dall’inchiesta milanese su Expo; più di recente, i contrasti nel consiglio di amministrazione hanno portato alle dimissioni polemiche del nuovo ad, Riccardo Casale, con una lettera di fuoco contro la gestione attuale alla fine di ottobre del 2014.
La prima generazione degli impianti nucleari europei sta per andare in pensione
Ma il tempo passa e la delicata questione del deposito non può restare senza decisioni. Ancora una volta, la palla è in mano alla politica, che è chiamata a gestire con intelligenza un problema intorno a cui si concentrano anni di paure, scarsa informazione e passi falsi.
Potrebbe essere anche una grande opportunità. La prima generazione di impianti nucleari, infatti, sta per andare in pensione. Anche se le diverse autorità di regolazione nazionali stanno già concedendo diverse estensioni nel periodo di operatività, tra il 2020 e il 2030 non ci sarà probabilmente modo di evitare che parecchie decine di reattori vengano spente una volta per tutte. La maggioranza di essi si trova in Europa.
In altre parole, il treno per sviluppare le conoscenze e le soluzioni tecnologiche più adatte per il decommissioning nucleare sta passando adesso. Le autorità europee si sono già occupate, pochi mesi fa, del fatto che nell’Unione potrebbero mancare migliaia di tecnici e ingegneri in grado di sfruttare al meglio un mercato stimato in decine di miliardi di euro. Un piccolo desiderio per il nuovo anno: che non sia un’altra occasione perduta.