Ce lo chiede l'europaRenzi batte i pugni sul tavolo, l’Europa ci prende a pugni in faccia

Conti pubblici, gas, industrie, politica estera. Su tutti i tavoli aperti con Bruxelles Matteo rischia grosso. L'unica strada per contare di più? Il dialogo con il Regno Unito

Sbattere i pugni sul tavolo ha sempre pagato poco in Europa. Parola di un’ampia schiera di osservatori, tra corrispondenti di lunga data, funzionari e analisti politici da anni residenti a Bruxelles. Non sembra ancora averlo compreso Matteo Renzi, che sin dai primi giorni a capo del Governo ha scelto questa strategia per far ascoltare la propria voce dagli altri 27 Stati membri, salvo poi mitigarla nei momenti di interesse. L’attacco ad Angela Merkel e all’Europa del rigore arriva in un momento critico per Roma sotto analisi per il livello dei conti pubblici e per la gestione di alcuni importanti dossier: dal salvataggio delle popolari alla gestione del caso Ilva. Sullo sfondo per molti c’è altro: il superamento in eurocriticismo (se non proprio euroscetticismo) di Lega e Cinque Stelle in modo da assicurarsi il consenso necessario alla prossima campagna referendaria e per le elezioni amministrative.

Dopo un 2015 di toni dimessi, segnato dalla scarsa presenza italiana la scorsa estate nella gestione della crisi greca, Palazzo Chigi ha scelto da dicembre di utilizzare toni inusualmente aspri contro l’Europa dell’austerità a guida tedesca. Ma la guida tedesca dell’Unione europea non è un fatto recente. Dal cosiddetto motore franco-tedesco, infatti, si è passati negli ultimi anni al dominio della filosofia economica made in Berlin, avallata dai cosiddetti falchi del rigore nord europei. Tendenza consacrata anche dal decennio di Josè Barroso a capo della Commissione europea, in cui hanno regnato mancanza di iniziativa e soprattutto coraggio politico. Con il risultato che l’austerità è diventata il mantra accettato e imposto come unica cura ad economie malate di clientelismo, forte spesa pubblica e scarso dinamismo. Come, appunto, l’Italia.

L’austerità è diventata il mantra accettato e imposto come unica cura ad economie malate di clientelismo, forte spesa pubblica e scarso dinamismo

La battaglia del Premier contro l’odiassimo Fiscal Compact è considerata da analisti ed economisti puramente retorica: «Renzi non ha alcuna chance di veder archiviato il Fiscal Compact, che è diventato (sfortunatamente) il perno attorno al quale si muove l’intera strategia tedesca nei confronti dell’Eurozona – spiega a Linkiesta Paul De Grauwe, docente di Economia Internazionale alla London School of Economics -. Soprattutto, non ha strumenti per cambiare l’approccio generale». Opinione condivisa anche da un altro economista, l’ungherese Zsolt Darvas del think tank Bruegel: «Anche se nel rapporto dei cinque Presidenti (Commissione, Consiglio, Bce, Eurogruppo e Parlamento Ue, ndr) è menzionata la necessità di riformare un giorno Fiscal Compact e Six Pact, questo non avverà nel breve termine».

Firmato da un incauto Silvio Berlusconi, ormai giunto al termine della propria credibilità politica in Europa, il Fiscal Compact prevede una riduzione progressiva del debito pubblico per quei Paesi, come l’Italia, il cui rapporto tra Debito e Pil supera il 60%. A partire da quest’anno l’Italia dovrà ridurre di un ventesimo l’anno il rapporto tra i due. Per farlo ha due strade: tagliare il debito agendo sulla spesa pubblica oppure aumentare la crescita e quindi agire sul Pil. Il grido di battaglia di Matteo Renzi a un trattato che è ormai entrato a far parte della Costituzione italiana prende atto della posizione scomoda nella quale oggi ancora si trova il Paese. Zsolt Darvas spiega ancora a Linkiesta che «Se da economista ritengo che l’austerità faccia male a Paesi come l’Italia, dall’altro devo anche sottolineare che in tutti questi anni dal punto di vista del rispetto delle regole fiscali, i governi italiani hanno fatto ben poco. Compreso quello attuale». Roma, però «otterrà alla fine lo sconto di flessibilità che ha richiesto – continua Darvas – perché la Commissione Juncker non ha reali interessi a creare un altro fronte di conflitto tra i Paesi europei. È giusto, però, che vengano ribadite le regole comuni e che vengano sottolineate le eccezioni concesse». Il banco di prova finale sullo stato dei conti pubblici italiani e sulla manovra del 2016 è atteso in primavera. Solo a quel punto Roma potrà tirare il sospiro di sollievo finale.

La battaglia sui conti pubblici rappresenta soltanto una delle ragioni dello scontro renziano con i vertici europei e con la Germania di Angela Merkel. Dall’altro lato c’è anche la volontà di riportare l’Italia in una posizione centrale nell’Unione a 28 dopo un decennio, almeno, di subalternità. Qui il compito si fa parecchio difficile. La Presidenza della Commissione Ue affidata a Romano Prodi è stata forse l’ultima occasione in cui il Belpaese ha di fatto avuto un ruolo centrale a Bruxelles. Per gli analisti politici e i corrispondenti che vivono nella capitale belga da più di un decennio, uno dei grandi mali italiani è l’alto turnover dei funzionari e dei negoziatori con posti chiave nelle istituzioni, molti dei quali cambiano con il variare degli esecutivi, essendo legati a doppio filo con il governo di turno. Questo mentre le altre delegazioni dispongono di professionalità a lungo termine, ben note alle altre delegazioni. In passato le più potenti erano non soltanto quella tedesca, ma anche quella britannica e francese. Anche se in questi anni le ultime due hanno perso parecchia importanza

La battaglia sui conti pubblici rappresenta soltanto una delle ragioni dello scontro renziano con i vertici europei e con la Germania di Angela Merkel. Dall’altro lato c’è anche la volontà di riportare l’Italia in una posizione centrale nell’Unione a 28 dopo un decennio, almeno, di subalternità. Qui il compito si fa parecchio difficile

Oltre al lavoro sulla formazione e selezione degli uomini da inviare a Bruxelles, per tornare al centro della scena europea l’Italia punta a difendere anche la propria posizione economica, blindando il recupero di un’azienda strategica come l’Ilva, ma anche evitando l’esclusione da progetti di approvigionamento energetico, come il North stream. Su questo punto Marco Giuli del think tank EPC spiega a Linkiesta: «Nonostante la cancellazione del South stream e i consumi italiani di gas in ribasso, la partnership energetica fra compagnie italiane e russe ha una lunga e solida storia. L’Italia non ha grossi interessi strategici in Ucraina, e più di altri Paesi spinge sulla necessità di collaborare con la Russia ad una via d’uscita dalla crisi siriana. Infine, la Russia rimane un mercato di sbocco essenziale per le manifatture italiane duramente colpite dalle sanzioni contro Mosca, a cui Renzi ha appunto pensato di legare la questione del Nord Stream puntando il dito contro le incoerenze tedesche». «Del resto – continua Marco Giuli – L’archiviazione del South Stream non esclude che le compagnie italiane possano partecipare in qualità di contractor al progetto del North Stream. Gli interessi di Italia e Germania sono da questo punto di vista più vicini di quanto sembri».

Oltre la procedura d’infrazione aperta nel 2013 per mancato adeguamento alle norme ambientali comunitarie, il dossier Ilva comprende anche l’attento monitoraggio delle mosse di Palazzo Chigi da parte della Commissaria europea alla Concorrenza, la temutissima Vestager, cui spetterà la parola finale sull’eventuale presenza di aiuti di stato illeciti all’azienda. Al di là dei tecnicismi, però, il nodo Ilva è strategico per il Governo Renzi, che punta a difendere la produzione dell’acciaio italiano in un contesto di forti attacchi da parte di Paesi come Regno Unito e Germania, competitor del settore. Al fine di evitare una chiusura degli impianti di Taranto, che potrebbe essere decisa nel caso in cui venisse confermato che l’adeguamento alle normative ambientali comunitarie continua a non essere rispettato, Palazzo Chigi sta intessendo in questi mesi negoziati intensi con la Commissione europea, anticipandone le richieste e le osservazioni.

In un’ Europa fortemente divisa, dove cresce il peso e il ruolo dei nazionalismi e dei populismi, incapace di gestire crisi improvvise, Matteo Renzi ha intravisto la possibilità di conquistare lo spazio lasciato da vuoto da una Francia ferita, una Germania giunta al termine (probabilmente) dell’era Merkel.
Per riuscirci avrà bisogno, però, di grande tatticismo e di solide alleanze. Per il think tank Oen Europe, un’alleanza possibile potrebbe essere quella tra Roma e Londra. Come spiega a Linkiesta Vincenzo Scarpetta, «i benefici di un asse con Cameron sono evidenti: dal punto di vista di Renzi, i benefici di un asse con Cameron sono piuttosto evidenti. Sul piano domestico, l’agenda riformista del premier britannico offre a Renzi un’occasione d’oro per dimostrare che l’Italia è determinata a plasmare un’Europa diversa – un modo per rispondere all’avanzata di Lega Nord e Movimento Cinque Stelle. A livello europeo, evitare l’uscita del Regno Unito garantirebbe all’Italia una potenziale sponda per far sì che l’UE non diventi ancor più a trazione franco-tedesca in futuro». Alleanza, però, che in caso di Brexit potrebbe rivelarsi un boomerang per il Premier.

Per convincere Bruxelles e le altre 27 capitali di essere un Premier affidabile e maturo, in grado di guidare l’Europa fuori dall’impasse attuale e liberarla dal mantra dell’austerità, Renzi ha davanti a sé un’unica strada: apprendere l’arte del negoziato. Ben nota all’Ambasciatore italiano presso l’Unione europea Stefano Sannino, uomo di profonda conoscenza dei meccanismi comunitari, la cui prossima dipartita da Bruxelles mostra quanto Palazzo Chigi abbia ancora da apprendere su come si lavora e si ottengono i risultati nella capitale d’Europa.

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