Con Blatter e Platini travolti da veleni e scandali di ogni tipo, la corsa alla presidenza della Fifa è ormai entrata nel vivo. Tra polemiche, squalifiche del comitato etico, magagne burocratiche e rinunce eccellenti, i candidati rimasti in lizza sono cinque. Due aristocratici arabi, il giordano Ali Al Hussein (quello in giacca e cravatta) e il bahreinita Salman Bin Ebrahim Al Khalifa (quello che ogni tanto indossa il vestito tradizionale del Golfo), il diplomatico francese Jerome Champagne e l’avvocato poliglotta di ascendenza calabrese Gianni Infantino, in realtà al soldo di Michel Platini. Ottime persone, conviviali, spigliate, uomini di mondo che ciascuno vorrebbe alla propria tavola. Ma nessuno di loro ha ciò che invece possiede il quinto candidato. Il nome più bello nella storia del mondo: Tokyo Sex Whale.
È vero, anche Jerome Champagne non è male come nome. Ma vogliamo davvero paragonarlo a Tokyo Sex Whale? Una gigantesca balena allevata tra il pacifico giapponese e l’Oceano indiano- africano, un nome potente ed ecumenico, un Moby Dick dal volto umano, spermaceti in grado di ripristinare l’onore perduto della Federazione. Il calcio non aspetta altro che essere guidato da una simile icona, rispettabile uomo d’affari, grande esperto dell’industria dei diamanti ed eroico attivista per i diritti dei neri.
Ali e Salman hanno viaggiato all’estero, ma sono cresciuti a palazzo reale e quando erano in giro per il mondo probabilmente i genitori gli mettevano accanto due guardie del corpo. Tokyo invece è nato a Soweto, si è nutrito di lotta anti-apartheid, ha militato nell’African National Congress (Anc) con Mandela ed è scappato in Unione Sovietica quando i bianchi volevano arrestarlo, specializzandosi in tecniche militari ed esplosivi. Tornato in patria in carcere ci è finito davvero, rimanendoci 13 anni, nella famigerata Robben Island. Quando ne è uscito, nel 1990, ha fatto il politico dell’Anc alla luce del sole, prima di dedicarsi agli affari. Tokyo sa cos’è la lotta, chi sono gli oppressi e come organizzare una rivolta. Per Jerome Champagne il “che fare” è una domanda da porsi soltanto nel fine settimana.