Cameron, la Brexit e l’inizio della fine del Regno Disunito

Pubblichiamo un estratto del libro ”Europa Anno Zero” di Eva Giovannini, in cui si racconta come mai il premier britannico abbia voluto un referendum sulla permanenza in Europa. E come si sia messo nei guai da solo

Tratto da “Europa Anno Zero” di Eva Giovannini, Marsilio, 2015

In 52 minuti, David Cameron ha rottamato tutti i suoi avversari. Fra le 11.22 e le 12.14 di venerdì 8 maggio 2015, infatti, hanno rassegnato le dimissioni i tre principali leader politici britannici: Nigel Farage, il segretario del partito laburista Ed Miliband, e Nick Clegg, leader dei liberal-democratici, fino alla scorsa legislatura alleati di Cameron. Se è legittimo chiedersi come abbia fatto a portare a casa la maggioranza conservatrice più schiacciante dai tempi di Margaret Thatcher e di John Major – 36,9% dei consensi e 330 seggi in Parlamento –, è ancora più urgente interrogarsi su quale modello di paese abbia in mente David Cameron per i prossimi anni.

Ma la promessa delle promesse, giudicata da molti una concessione al populismo di destra – e che, prima del risultato clamoroso degli euroscettici alle scorse europee, Cameron non avrebbe mai immaginato di poter fare –, riguarda la possibilità di far scegliere ai cittadini britannici se restare o meno nell’Unione europea, tramite un referendum che si terrà il 23 giugno 2016.

Un plebiscito sull’annosa questione Europa sì/Europa no. Considerando che il Regno Unito ha mantenuto la moneta con il simbolo di Sua Maestà, si tratta quindi di scegliere se fare ancora parte di quella grande comunità che abbraccia, e talvolta ingessa, ben ventotto paesi e quasi cinquecento milioni di cittadini e ne delimita le regole di mercato e di difesa. Il dato interessante è che non solo il pensionato di Margate sembra persuaso dalla prospettiva isolazionista, ma anche una parte dei benestanti che vivono nella capitale preferisce accettare il rischio insito nel referendum – sperando che poi vincano i no – piuttosto che essere governata dai laburisti. (…) La maggior parte dei residenti in questi quartieri lavora nel mondo dell’imprenditoria o nella City, e non si può certo dire che con loro l’Europa sia stata matrigna. «Ormai Cameron ha promesso che farà questo benedetto referendum», prosegue l’imprenditore italiano, che mi ha chiesto di restare anonimo, «ma io spero che vinca il fronte del No, altrimenti sarà un disastro. Io, se passano i Sì, il giorno dopo faccio le valige e me ne vado».

Quello che per il leader dell’Ukip è l’obiettivo principale e per Cameron un’opportunità da dare ai cittadini, per gli abitanti di Kensington e per molti analisti economici è una prospettiva da evitare a ogni costo. Un rapporto di novantadue pagine pubblicato dal Centre for European Reform evidenzia come far parte dell’Unione europea abbia comportato per il Regno Unito un aumento del 55% degli scambi con gli altri paesi membri, un incremento degli investimenti dall’estero e la promozione della City a maggior hub finanziario del mondo. Con questi presupposti, la possibilità di un ritorno alla «piccola Inghilterra» e la convinzione che la Gran Bretagna sia più libera fuori dall’Unione europea, risulta «basata su una serie di idee sbagliate». Senza contare che Londra dovrebbe comunque negoziare un accordo di libero scambio con Bruxelles e sottostare a tutta una serie di regole, senza avere più voce in capitolo sulla loro approvazione.

«Ormai Cameron ha promesso che farà questo benedetto referendum», prosegue l’imprenditore italiano, che mi ha chiesto di restare anonimo, «ma io spero che vinca il fronte del No, altrimenti sarà un disastro. Io, se passano i Sì, il giorno dopo faccio le valige e me ne vado»

Tra i principali esponenti dell’ala euroscettica dei Tory c’è l’eterno amico-nemico di Cameron, il compagno di università e di partito Boris Johnson, il politico più biondo d’Inghilterra, al suo secondo mandato come sindaco di Londra. È anche per sedare la fronda dei vari Johnson nel partito, che il primo ministro ha concesso il referendum. Nello specifico, all’eterno rivale, Cameron ha promesso un posto nel gabinetto di governo appena avrà terminato il mandato di sindaco. La politica del premier è, dunque, inclusiva, sia nella distribuzione delle poltrone sia nelle concessioni sui grandi temi, a partire dall’antieuropeismo. Come diceva l’ex presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson a proposito dei nemici: «Forse è meglio averli dentro la tenda e farli pisciare fuori, che tenerli fuori dalla tenda e farli pisciare dentro».

Guardando al presente da una prospettiva più ampia, è facile ritrovare nell’antieuropeismo di Cameron il lascito del nazionalismo di Margaret Thatcher, che raggiunse l’acme nel celebre discorso di Bruges. Era il 1988 quando la Lady di Ferro, rivolgendosi alla platea del Collegio d’Europa nella cittadina francese, definì l’allora Comunità europea «un club che si guarda l’ombelico, ossificato in una mania da iperregolamentazione», e aggiunse: «Non abbiamo fatto arretrare i confini dello Stato in Gran Bretagna per vederli riespandere a livello europeo con un super-Stato che esercita una nuova forma di dominio da Bruxelles».

Cameron non avrà vita facile nei prossimi cinque anni. Ha una maggioranza solida, ma non sufficiente per poter fare a meno di accordi con le opposizioni. Governa sessantadue milioni di abitanti, ma deve tenere insieme quattro paesi in uno – Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda – sedando le varie spinte secessioniste. Ha vinto le elezioni, ma il vento nazionalista soffia forte oltremanica, e il referendum che ha promesso potrebbe rivelarsi un grande autogol. L’inizio della fine.

«C’era una volta un regno disunito»: se la Gran Bretagna del 2015 fosse una fiaba, inizierebbe così. A meno che non si scelga di andare verso un «Regno federale di Gran Bretagna», come propone il docente di Studi europei e saggista Timothy Garton Ash per far fronte a una realtà «drasticamente cambiata». Una confederazione di Stati difficile da organizzare – «a chi saranno devoluti i poteri sotto il profilo federale, alle regioni, alle contee, alle municipalità?» –, ma necessaria a domare le spaccature interne e le pressioni internazionali. L’unico modo, forse, per fare di un «regno disunito» una nazione forte, ma non staccata dal resto del mondo. Anche perché forse, in un’epoca in cui gli uomini e i capitali non sono mai stati così mobili, un nuovo isolamento inglese, di splendido avrebbe ben poco.

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