Mentre i dati elettorali continuano ad affluire a Teheran dalle provincie più remote del Paese – soprattutto aree rurali, dove i conservatori hanno il proprio bacino di voti – comincia ad emergere più chiaramente il significato di questo voto in Iran: è andato più o meno tutto come era stato pianificato che andasse. In Parlamento (Majlis) i conservatori resteranno probabilmente il gruppo più numeroso, pur perdendo (forse) la maggioranza dei rappresentanti, e il blocco centrista formato da moderati e riformisti (più qualche conservatore pragmatico) ottiene un ottimo risultato – specie a Teheran, 30 seggi conquistati su 30 – che verrà probabilmente usato dal presidente Rohani, espressione di questo stesso blocco, per portare avanti con maggior determinazione il suo piano di riforme.
Nell’Assemblea degli Esperti – l’organo che elegge la Guida Suprema quando la precedente muore o non è comunque più in grado di esercitare le proprie funzioni – si registra l’exploit del chierico riformista e veterano della politica iraniana, Hashemi Rasfanjani, e del presidente Rohani, ma la maggioranza pare rimarrà saldamente nelle mani dei conservatori. Entrambi questi esiti, a grandi linee, sono stati probabilmente pronosticati e voluti dall’attuale Guida Suprema, l’Ayatollah Alì Khamenei. È lui che, potendo dosare tramite il Consiglio dei Guardiani – l’organo che ammette o meno le candidature a tutte le elezioni del Paese, e che è da lui di fatto controllato – la quantità massima consentita di ribellione al sistema teocratico, cerca di tenere in condizione di equilibrio la Repubblica Islamica.
Dopo le proteste di massa del 2009 – l’Onda Verde -, la brutale repressione dell’apparato di sicurezza, il malcontento popolare e la crisi economica durante il secondo mandato del presidente ultra-conservatore Mahmud Ahmadinejad (2009-13), la teocrazia stava infatti cominciando a scricchiolare. Per impedire che l’esasperazione – politica ed anche economica – mettesse a repentaglio il sistema, Khamenei concesse al candidato moderato Rohani di correre alle presidenziali del 2013, lasciando convergere su di lui le speranze di cambiamento, ripresa economica e apertura verso il mondo di una popolazione giovane e oramai post-rivoluzionaria. L’esperimento si rivelò presto un successo: il negoziato sul nucleare voluto dal Presidente ha portato ad un accordo, da poco implementato, che agli occhi degli iraniani è una promessa di miglioramento dell’economia grazie alla fine delle sanzioni. Non solo.
Dopo le proteste di massa del 2009 – l’Onda Verde -, la brutale repressione dell’apparato di sicurezza, il malcontento popolare e la crisi economica durante il secondo mandato del presidente ultra-conservatore Mahmud Ahmadinejad (2009-13), la teocrazia stava cominciando a scricchiolare.
La “fortunata” coincidenza della guerra – comune tra Iran (sciita) e Occidente – allo Stato Islamico (sunnita) ha portato Teheran dalla parte dei “buoni” e spesso al centro dei giochi diplomatici internazionali. Minare la via intrapresa da Rohani – e apprezzata dal popolo – in questo momento non avrebbe avuto senso, anzi. Khamenei ha tutto l’interesse che l’esperimento prosegua e cementi ulteriormente le basi del sistema teocratico.
Ma la Guida Suprema non vuole nemmeno lasciare troppo spazio allo spirito di ribellione e alle aperture verso l’Occidente, temendo che possano disgregare le fondamenta rivoluzionarie della Repubblica Islamica. Quindi ai conservatori – suoi strenui difensori – ha garantito comunque una posizione di forza in Parlamento e soprattutto il controllo all’interno dell’Assemblea degli Esperti. Qui infatti – avendo tale organismo mandato di otto anni e, vista l’età di Khamenei, essendo probabile che sarà proprio questa appena eletta ad essere chiamata ad eleggerne il successore – si deciderà l’indirizzo della teocrazia iraniana per i prossimi decenni a venire.
«La maggioranza dell’Assemblea resterà in mano ai conservatori», conferma Pejman Abdolmohammadi, docente di Politiche del Medio Oriente della London School of Economics. «Ma ci sono alcuni elementi comunque interessanti da notare: il successo di Rasfanjani e di Rohani, pur simbolico, verrà sicuramente usato per rafforzare il mandato del presidente. Il grande sconfitto è Mesbah Yazdi, leader degli ultra-conservatori, che pare rimarrà fuori dall’Assemblea (e come lui anche l’altro leader “falco” conservatore, l’Ayatollah Mohammad Yazdi, attuale capo dell’Assemblea degli Esperti ndr.). Questo è un duro colpo per il suo schieramento, forse un segnale che gli ambienti vicini ai Pasdaran – le Guardie Rivoluzionarie – hanno voluto mandare agli ex falchi di Ahmadinejad perché abbassino i toni contro la linea centrista di Rohani».
L’Iran esce dunque rafforzato da questa tornata elettorale, con un nuovo Parlamento meno ostile al Presidente del precedente. Ora Rohani dovrebbe incontrare meno difficoltà a far passare le riforme economiche necessarie perché i benefici attesi dalla fine delle sanzioni raggiungano la popolazione (in Iran ci sono molte incrostazioni e clientele nell’economia, specie visto il ruolo invasivo delle fondazioni religiose – Bonyad – e legate ai militari). Ma le redini del Paese restano in mano a Khamenei e ai conservatori, che vigileranno contro pericolose aperture o fughe in avanti e manterranno il controllo sul potere in vista dell’elezione della prossima Guida Suprema.