Sono passati diciotto mesi da quando, a Mosul, il Califfo al Baghdadi ha proclamato lo Stato Islamico sui territori conquistati dall’Isis in Siria e Iraq. Nonostante il 2015 sia stato un anno di sconfitte per l’organizzazione jihadista – fonti militari americane stimano che abbia perso il 20% dei territori controllati in Siria e il 40% in Iraq –, il suo sradicamento ancora oggi sembra un miraggio lontano. Anzi, se nella sua terra di origine inizia a soffrire le azioni congiunte curde/americane e sciite/russe, dimostra però una grande abilità nel diffondersi all’interno di altri scenari di crisi, come la Libia, lo Yemen e l’Afghanistan.
Siria e Iraq
In Iraq l’esercito regolare, supportato da milizie sciite locali e iraniane, da poche settimane ha sottratto al controllo dell’Isis Ramadi, capoluogo della provincia occidentale (a maggioranza sunnita) di Anbar. Tuttavia, anche a causa delle caratterizzazione dello scontro come una faida intra-religiosa tra sunniti e sciiti, la liberazione dei territori circostanti dallo Stato Islamico procede a rilento. La popolazione locale teme infatti la vendetta settaria delle milizie, e non di rado l’Isis è stato valutato come il minore dei mali. Meglio sta andando sul fronte nord. L’esercito iracheno – sempre affiancato da milizie sciite – è riuscito ad allontanare le truppe del Califfato da Baghdad, riconquistando Tikrit e i territori circostanti, e le milizie curde (Peshmerga) stanno erodendo il controllo dall’Isis sulle zone intorno a Mosul. In particolare la vittoria curda di Sinjar, lo scorso novembre, è stata tatticamente importante in quanto ha troncato le vie di comunicazione tra Mosul (la città più importante in mano allo Stato Islamico in Iraq) e Raqqa (la sua capitale in Siria).
In Siria la situazione è più caotica. Lo Stato Islamico può approfittare della guerra civile che oppone ribelli sunniti e regime di Assad, della rivalità tra gruppi ribelli (jihadisti e non) e di forte ingerenza delle potenze sunnite della regione – Turchia e Arabia Saudita principalmente – che hanno come principale nemico la dittatura filo-iraniana di Assad (e nel caso della Turchia anche i curdi siriani, vicini al Pkk, considerato da Ankara un’organizzazione terroristica) e non l’Isis. Qui il Califfato, nel corso del 2015, ha perso molto terreno a nord, a tutto vantaggio dei curdi che sono vicini all’unificare i propri cantoni occidentali con quelli orientali (e il maggiore ostacolo al momento è proprio la minaccia della Turchia di intervenire direttamente, qualora ciò accadesse). Tuttavia nel resto del Paese lo Stato Islamico non ha conosciuto gravi sconfitte, anzi, nell’estate del 2015 è anche riuscito a sottrarre al controllo di Damasco la città di Palmira (il cui meraviglioso sito archeologico è stato gravemente danneggiato dai terroristi) e vaste aree limitrofe. A determinare questo quadro pesa la strategia della Russia che, da quando è intervenuta lo scorso settembre, ha concentrato i propri attacchi più sugli altri ribelli che non sull’Isis. Ma non solo.
Da un punto di vista geopolitico anche l’Occidente si trova in difficoltà nello sradicare decisamente lo Stato Islamico da Siria e Iraq. Se infatti il Califfato scomparisse dall’oggi al domani, i suoi territori finirebbero probabilmente sotto il controllo di milizie curde o sciite (appoggiate dall’Iran) e di Assad. Questo è inaccettabile per i nostri alleati dell’area (Arabia Saudita e Turchia), i cui interessi strategici di lungo periodo verrebbero gravemente compromessi. Si procede dunque a rilento con le operazioni, sperando che prima o poi una finestra negoziale si apra (gli attuali colloqui di pace di Ginevra sembrano però destinati al fallimento) e si riesca a trovare un bilanciamento di interessi di tutte le parti coinvolte. Nel frattempo lo Stato Islamico viene contenuto e scalfito lentamente. Di recente sono anche state colpite alcuni suoi asset economici, come le linee di produzione e vendita del greggio e alcuni depositi di contante (rubato a suo tempo dai caveau delle banche delle città conquistate).
Altri scenari di crisi
A fronte della situazione di contrazione in Siria e Iraq – che rimane il cuore strategico dell’attività dell’Isis, anche considerato il peso decisionale che hanno ex ufficiali dell’intelligence di Saddam Hussein nella direzione del gruppo jihadista – lo Stato Islamico è riuscito a espandersi in altri scenari di crisi. In Libia gli uomini di Al Baghdadi sono stati abili nello sfruttare l’anarchia in cui, da circa due anni, è sprofondato il Paese. Hanno preso il controllo di Sirte e di una vasta area costiera – pare anche grazie all’alleanza con alcuni militari ex gheddafiani –, e hanno danneggiato gli impianti petroliferi nell’area, che si teme possano ora cadere nelle loro mani.
Il timore poi è che sfruttino la vicinanza della Libia con l’Europa per farne un’importante base logistica per la pianificazione di attentati terroristici all’estero (più difficile che possano ambire a un vasto controllo territoriale, vista la compresenza di numerose fazioni armate locali). L’Occidente intende soffocare questo focolaio, ma per farlo deve attendere un accordo di unità nazionale tra fazioni libiche – in trattativa in questi giorni, ma con molte criticità – che eviti di trasformare un eventuale intervento in un boomerang (anche se crescono le voci di un intervento anche senza accordo, se i tempi si allungassero troppo, e di commando di forze speciali già operativi nel Paese).
Anche in Yemen lo Stato Islamico sta aumentando la propria presenza. Negli ultimi giorni ha rivendicato diversi attentati suicidi ad Aden. Qui, come in Libia, può sfruttare la situazione di guerra civile, che vede opposti i ribelli sciiti Houthi al governo sunnita sostenuto dall’Arabia Saudita (mentre una rilevante porzione del Paese è controllata da Al Qaeda nella Penisola Arabica, o Aqap). Infine l’Isis pare stia trovando fertile anche in Afghanistan, altro Paese sconvolto dal perdurante scontro tra esercito regolare – supportato dalla Nato – e guerriglieri talebani. In questi ultimi casi tuttavia lo Stato Islamico è più presente come “marchio” che non come struttura organizzativa direttamente riconducibile ai centri decisionali siriani e iracheni. Se un domani dovessero cadere Raqqa, Mosul e i territori parte del Califfato, i jihadisti che oggi combattono all’estero sotto le bandiere nere di al Baghdadi troverebbero probabilmente un altro gruppo terroristico a cui affiliarsi per ottenere il massimo della visibilità possibile.