Nel dicembre del 2013, una serie di articoli pubblicati su Coming Soon si proponevano di fare luce su un “processo molto complesso”, “lungo più di quanto si possa pensare”, “costoso”, “forse persino un po’ magico, come tutte le cose che coinvolgono l’immaginazione”. L’argomento, che abbiamo già trattato in queste pagine, è il formato della serialità televisiva, ovvero i prodotti di intrattenimento più potenti che ci sono sul mercato. Almeno per un po’.
Complesso. Sì, molto. Lungo. Anche, moltissimo. Costoso. Oltre qualsiasi vostra aspettativa. Magico. No, un attimo. Magico forse no. «Nessuno conosce la formula esatta, e questo è un mistero destinato a perdurare», continuava l’articolo pubblicato da Coming Soon, ma si sbagliava. E non tanto sul fatto che esista una formula esatta — perché di formule ce ne sono tante quante le nicchie di pubblico e di generi su cui si espande l’offerta — quanto sulla imperscrutabilità del mistero, e sulla sua durata.
Il mistero è scrutabile. E già all’epoca non perdurava. Nel 2013, infatti, anche se ancora era un network conosciuto soltanto da pochi spettatori qua in Italia, Netflix quel mistero lo aveva già in parte risolto. Non c’entrava nessuna formula segreta, né alcun patto con il diavolo. Era soltanto una questione di dati.
Se conoscessimo tutti i dati parziali che compongono la totalità dell’universo saremmo in grado di prevedere il momento successivo. Fino alla fisica quantistica e al principio di indeterminazione di Heisenberg, non era una cosa così folle. Probabilmente anche del campo del marketing e dell’intrattenimento esiste una logica quantistica e casuale che determina le dinamiche del successo di un prodotto, ma anche se fosse, Netflix sta cercando di bypassarle.
Il segreto è nei cosiddetti Big Data. Conosci il pubblico e i suoi comportamenti, e saprai costruire — con buona approssimazione — un prodotto di successo. E Netflix questa cosa le sa. Come nessuno mai.
Netflix non trasmette, sono gli utenti che accedono a Netflix. Ogni azione che l’utente fa attraverso l’interfaccia e le applicazioni corrisponde a un dato. Netflix non sa soltanto quali prodotti scegliamo. Sa anche come li usiamo
«Sappiamo esattamente cosa la gente guarda su Netflix». Era il novembre del 2012. E a parlare era Jonathan Friedland, a capo della comunicazione di Netflx, che continuava: «siamo in grado, con un alto grado di sicurezza, di capire quanto potrebbe essere ampia l’audience di un programma basandoci sulle abitudini dei nostri spettatori».
«Quello che noi sappiamo fare molto meglio di chiunque altro è determinare il potenziale audience dei nostri progetti». Era sempre il 2012, ma questa volta a parlare era Ted Sarandos, Chief Content Officer di Netflix, che con queste parole spiegava agli investitori il perché i loro soldi non potevano essere meglio investiti. Continuava Sarandos: «Teniamo d’occhio il database dei nostri utenti, sia della parte DVD sia della parte streaming. Ci interessa come i nostro spettatori giudicano i nostri prodotti. Ma ci sono anche altri feedback che sono più impliciti».
Netflix non trasmette, sono gli utenti che accedono a Netflix. Ogni azione che l’utente fa attraverso l’interfaccia e le applicazioni corrisponde a un dato. Netflix non sa soltanto quali prodotti scegliamo. Sa anche come li usiamo. Sa se le vediamo compulsivamente, e dalla quantità di cosiddetti binge-watchers valuterà una parte della riuscita. Sa se le vediamo a scaglioni, se rallentiamo, se ci fermiamo.
Rispetto ai canali tradizionali o a quelli via cavo, quello che Netflix ha in più rispetto a tutti gli altri è proprio questo. Perché? Perché Netflix distribuisce via internet, non trasmette via cavo o via satellite. Che differenza c’è? Che a distribuire via internet si fa accedere ogni spettatore a una piattaforma — l’app o il sito di Netflix — arrivando su device che sono ovviamente connessi anch’essi a internet e, come ogni oggetto che è connesso a internet, ha un IP di connessione. Ha un indirizzo.
Ognuno dei suoi abbonati, per Netflix, è un puntino. Certo, quando un singolo puntino fa un’azione, quel dato è abbastanza inutile. Ma se un milione di puntini fa la stessa azione? La cosa diventa più interessante. E Netflix, al gennaio del 2016, conta 74 milioni di utenti registrati e paganti. In 190 stati. E può aggregare i dati di ogni singola azione effettuata da ogni singolo puntino.
Bastano i giusti algoritmi, e con questi dati si possono ricostruire le dinamiche e individuare i gusti delle singole nicchie di pubblico specializzato, le variazioni di gradimento a seconda delle scelte della produzione, ma anche i gusti probabili del pubblico dei prossimi 12 mesi
Bastano i giusti algoritmi, e con questi dati si possono ricostruire le dinamiche e individuare i gusti delle singole nicchie di pubblico specializzato, le variazioni di gradimento a seconda delle scelte della produzione, ma anche i gusti probabili del pubblico dei prossimi 12 mesi. E il bello è che non parliamo di dati personali sensibili, ma di dati di esperienza, di utilizzo.
«Abbiamo miliardi di valutazioni dei prodotti da parte degli utenti», leggiamo sul Tech Blog ufficiale di Netflix, «E riceviamo milioni di nuove valutazioni ogni giorno. Possiamo calcolare la popolarità dei prodotti su diversi archi temporali, su un’ora, su un giorno, su una settimana. Possiamo lavorare su gruppi divisi per regione o per metriche simili».
È una mole immensa, e include anche i milioni di prodotti messi tra i preferiti, le miliardi di interazioni con le schede, ma anche la durata delle visioni, la tipologia del device, la qualità e la quantità di interazioni con la piattaforma di raccomandazione. Significa sapere più o meno ogni singolo movimento, «scroll, passaggi con il cursore, click e tempo di permanenza sulle pagine».
E non finisce qui. Mancano i social. «I dati provenienti dai social network sono diventati un’ulteriore risorsa per personalizzare il prodotto; possiamo anche analizzare quello che guarda e valuta chi ci segue su Facebook». E ancora, «Abbiamo a disposizione molte altre metriche: demografiche, geografiche, di lingua o dati sulle tempistiche di utilizzo che possiamo usare nei nostri modelli predittivi». E molto altro.
E funziona? Pare di sì, quanto meno per quanto riguarda i numeri. È infatti grazie a questi dati, ma soprattutto alla capacità di leggerli e capirli, che Netflix ha investito su una serie come House of Cards 100 milioni di dollari senza nemmeno voler vedere non dico un pilota, ma nemmeno un fotogramma.
«Spero che tutto questo sia un affare per Netflix, ma quale sarà il punto esatto in cui ci trasformeremo da abbonati soddisfatti in marionette senza cervello?»
«House of Cards è uno dei più importanti test di questa strategia creativa guidata dai Big Data», scriveva Andrew Leonard su Salon.com nel febbraio del 2013. E continuava: «Per almeno un anno, Netflix ci ha detto che sulla base della dettagliata conoscenza dei propri clienti e delle loro preferenze avevano deciso di produrre un remake di una serie anni Novanta della BBC, molto popolare e molto apprezzata dalla critica».
Immaginatevi i milioni di puntini di cui sopra. Immaginatevi l’algoritmo di Netflix che aggrega i dati e fa emergere una nicchia di pubblico di diversi milioni di puntini i cui gusti coincidono: hanno amato West Wing; amano i film con Kevin Spacey; adorano il regista David Fincher. A quel punto, investire 100 milioni di dollari a scatola chiusa su un remake con protagonista Kevin Spacey e dare a Fincher le prime due puntate non era esattamente una scommessa avventata.
Da questi dati e da queste scelte sono passati due anni. Nel frattempo Netflix ha prodotto altre due stagioni di House of Cards. Potenzialmente il peso delle analisi dei big data ricavati sulle prime due stagioni sulle scelte narrative delle seconde due potrebbe essere importante. Sapendo non soltanto se quei milioni di puntini hanno apprezzato le prime due stagioni, ma soprattutto, sapendo come quei milioni di puntini hanno apprezzato, si possono fare molte cose.
Non abbiamo i dati per dedurre se alcune scelte narrative siano state fatte sulla base delle analisi di questa mole immensa di dati, ma se così fosse avrebbe avuto ragione il già citato Andrew Leonard, che su Salon chiudeva il suo articolo con un timore: «Spero che tutto questo sia un affare per Netflix, ma quale sarà il punto esatto in cui ci trasformeremo da abbonati soddisfatti in marionette senza cervello?». La domanda è ancora lì.