Viva la FifaIl dodicesimo uomo in campo: il calcio tra fede e ragione

Di calciatori e allenatori molto credenti è piena la storia del pallone. Ma il confine con la superstizione è spesso sottile: Trapattoni con l'acqua santa, ma non solo. Mentre sono sempre più quelli che diventano Atleti di Cristo

­Una volta eravamo in camera insieme durante una trasferta della Nazionale; io non sapevo che fosse buddista. Ad un certo punto, fui svegliato da una specie di lamento proveniente dal bagno. Andai a vedere perché pensavo si sentisse male. Invece lui uscì e mi spiegò che quello era il suo modo di pregare.

Salvatore Schillaci, parlando di Roberto Baggio

Un bel giorno d’estate del 2002, come se qualcuno ci avesse dato una spinta per scrollarci di dosso la trance agonistica in cui da bravi italiani sprofondiamo ogni quattro anni allo scoccare dei Mondiali, abbiamo davvero realizzato che nel calcio c’è chi sfrutta anche il fattore religioso. Qualcosa ci era sfuggito, in effetti. A cominciare dal fatto che la domenica, giorno della messa, qua in Italia si gioca al pallone. Le due religioni mica entrano in contrasto no? Anzi, spesso le strade si sono incrociate, dando vita a risultati sorprendenti, come il culto di Diego Maradona. Non il suo personale; proprio la Chiesa che in Argentina lo venera come una divinità, benché pure a Napoli non scherzino mica: a pochi metri dal Duomo che ospita il sangue di San Gennaro c’è un edicola votiva che custodisce un capello di Diego. E nella storia dello sport, e del calcio certo, ci sono stati giocatori molto credenti. Come Demetrio Albertini, che è riuscito ad abbassare al Milan quel limite di bestemmie che nel pallone di solito è alto e riscontrabile solo in certe bische clandestine. O come Damiano Tommasi, che se non avesse incontrato la sua futura compagna sarebbe finito in seminario. Invece è finito al Mondiale. In quello del 2002, tra l’altro.

Ecco, in quel maledetto torneo nippo-coreano che quando lo senti solo nominare ti prende una stretta al piloro e ripensi a Byron Moreno, abbiamo scoperto una cosa che all’epoca ci ha lasciati di stucco: un allenatore del calibro di Giovanni Trapattoni, che ha vinto valanghe di scudetti e ha allenato la Juve il Milan e l’Inter e una volta quando giocava in Nazionale non fece toccare palla a Pelè, insomma il Trap durante la partita di nascosto si è fatto beccare a versare dell’acqua sotto la panchina. No l’acqua del rubinetto, ma l’acqua santa, opportunamente sigillata in una boccettina e portata fino in Giappone. Quel giorno, a Saitama, l’Italia dopo aver vinto la gara d’esordio contro l’Ecuador sta soffrendo pazzamente contro la Croazia. Sta succedendo di tutto, in campo: un gol subìto e un arbitraggio diciamo così poco consono ci stanno facendo perdere. Il Trap allora non può fare altro che afferrare la boccettina che tiene nascosta sotto la giacca e versarne un po’ del contenuto lì davanti a lui. Hai un momento Dio?

Le telecamere di un calcio che si avvia sempre più verso la modernità (i Mondiali in Asia, per dire) lo sgamano in tre secondi netti. Ma il Trap nostro è uomo di altri tempi, si muove furtivo come quando a scuola cerchi di copiare. Mica ci pensa alle telecamere che vedono e provvedono. Lui è cresciuto in un calcio che prevedeva riti come la spargitura del sale davanti alla panchina da parte di Oronzo Pugliese, o un altro tipo di mago che consultava Nils Liedholm prima delle partite. Ma quelli erano altri giorni e le immagini lo beccano. Così che quando le stesse telecamere hanno beccato anni dopo Antonio Conte con un rosario attorno alle mani, eravamo già abituati.

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“Considerato che la micidiale punizione di Totti si è infranta sul palo interno, la lettura teologica della sequenza è piuttosto controversa: gol sfiorato o gol evitato? Oppure entrambe le cose, nel senso che l’intercessione divina ha provveduto, salomonicamente, a indicare il palo come equo discrimine tra due opzioni ugualmente care al Dio dei cristiani, la filo-italiana e la filo-croata?”, commenta quel giorno Michele Serra. Quel giorno in cui scopriamo che nel calcio si fa uso della religione. Si cerca di portare Dio dalla propria parte: il Trap credeva di farlo contro i cattolicissimi croati, ma era da solo contro undici.

Si cerca di portare Dio dalla propria parte: il Trap credeva di farlo contro i cattolicissimi croati al Mondiale del 2002, ma era da solo contro undici

E il sottile confine tra religione e superstizione diventa ancora più sottile. Un altro episodio lo spiega bene. Riguarda il Parma, prima dei fallimenti vari, quando era una delle squadre migliori in Europa. Come tutti i club, qualche anno fa però c’è un periodo in cui i risultati non arrivano. Un giorno, racconta l’ex capitano Lorenzo Minotti, arriva al campo d’allenamento un tizio sconosciuto. Non dice come si chiama (perché dovrebbe?) e fa consegnare ai giocatori un santino con la scritta “Gesù amami come sono”. Si vede che all’epoca i controlli attorno a Collecchio non erano così accurati, fatto sta che la consegna ha effetti miracolosi per la squadra: ”Per noi cambiò persino la vita sportiva perché ottenemmo ottimi risultati. Soprattutto ho iniziato con alcuni compagni, come Apolloni e Bucci, uno straordinario cammino di fede”.

C’è chi il cammino lo ha interrotto, perché ha interpretato un problema meccanico come un segno divino. Claudio Taffarel nel 2003 stava andando a Empoli, per firmare con la squadra toscana. Sulla strada, l’auto si ferma e va in panne. L’ex numero uno della Seleçao e campione del mondo nel 1994 – dunque non uno di quelli che va in giro con un cartello al collo con la scritta “La fine è vicina pentitevi” – lo interpreta come un messaggio di Dio: non deve mica andarci all’Empoli. Anzi, deve smettere subito di giocare. E lui obbedisce. “Chiedo scusa alla società e ai tifosi e perdono a Dio, ma la chiamata dell’Empoli e il guaio dell’auto mi hanno fatto pensare. Con l’auto ferma mi sono messo a riflettere, ho fatto un esame di coscienza profondo ed ho capito di aver chiuso col calcio. Da ieri l’ Empoli ha un tifoso in più”, ma certo.

Sulla strada, l’auto si di taffarel ferma e va in panne. L’ex numero uno della Seleçao e campione del mondo nel 1994 lo interpreta come un messaggio di Dio: non deve mica andarci all’Empoli. Anzi, deve smettere subito di giocare.

Pensi a Taffarel e ti ricordi di quella volta che parando il rigore decisivo che porta il Brasile alla finale di Francia ’98, la prima cosa che fa si inginocchia con viso e braccia verso l’alto, l’Altissimo. Lo stesso aveva fatto con i compagni quattro anni prima, nella fornace del Rose Bowl. Mentre in Italia era notte e si piangeva per un Mondiale gettato ai rigori, i brasiliani dedicavano quella coppa ad Ayrton Senna (anche lui religiosissimo) morto pochi mesi prima proprio in Italia. I giocatori si stringono la mano, sono in cerchio. Un momento d’estasi che, come scopriremo in un’intervista a Rete Globo, coinvolgerà anche il buddista Baggio: “Non avevo mai calciato un rigore sopra la traversa. Penso che quel giorno è stato Ayrton Senna che, dal cielo, ha spinto il pallone verso l’alto. E’ stato lui a far vincere il Brasile”.

Sì, è arrivato il momento di parlare degli Atleti di Cristo: Taffarel e Senna lo erano. Anche qui, partiamo da un episodio. Raccontano che se avevi il numero di telefono della casa milanese di Kakà e provavi a chiamarlo ma non c’era, la segreteria rispondeva pronta: “Non siamo in casa. Che Dio ti benedica”. Kakà è uno degli Atletas de Cristo più famosi. Ne fanno parte molti sudamericani, essendo nato il movimento in Brasile dall’attività di Baltazar Maria de Morais Júnior (Pichichi in Liga nel 1989 con l’Atletico Madrid) e di João Leite da Silva Neto, portiere dell’Atletico Mineiro. Da due, cioè, che venivano rispettivamente chiamati attaccante e portiere di Dio.

Il movimento in Brasile è no-profit e si sostenta con donazioni e gadget. Ne fanno parte giocatori famosi del presente e del passato: da Chamot a Lucio, da Alemao a Radamel Falcao. C’è anche in Italia e “cerca di lasciare messaggi importanti nel mondo dello sport dove noi viviamo quotidianamente. È una testimonianza per i giovani, per dire loro che ci sono cose più importanti nella vita che raggiungere solo obiettivi professionali. C’è qualcosa di molto più serio e profondo, che è giusto scoprire per evitare di fare scelte sbagliate”, ha spiegato Nicola Legrottaglie, ex difensore di Chievo e Juve e protagonista di una decisa conversione anni fa, in un recente incontro avvenuto a Modena. “È difficile piantare la bandiera di Gesù nei campi da calcio. Dieci anni fa era ancora più complicato, ma far parte degli Atleti di Cristo è un sogno. Dio ci sta usando per portare la sua parola”, gli ha fatto eco Nahuel Valentini, che gioca nello Spezia.

Dal sito degli Atleti di Cristo scopriamo che in Italia esistono una decina di “cellule”, che si ritroveranno per Pasqua a Milano per un raduno. A Catania la comunità è molto attiva: da lì è passato Legrottaglie nella sua carriera e quella bandiera l’ha piantata bene, ad esempio con il compagno Ciro Capuano. E continua nella sua opera anche in panchina. Così ha salutato l’approdo all’Akragas come allenatore: “Ogni partita è un dono, una benedizione dall’alto da vivere dando il massimo”. Lo scorso 17 gennaio si è dimesso. Niente acqua santa sotto la panchina per lui.

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