È una religione, soprattutto. Ma anche un complesso sistema di pratiche magiche, una filosofia e uno stile di vita. Un tratto fondamentale della cultura cubana. Gli spagnoli che nel XVI secolo osservarono per primi i suoi rituali la definirono con disprezzo Santeria. Non capendone l’essenza la consideravano una primitiva ed eccessiva venerazione dei santi cattolici. A trasportarla nel Nuovo Mondo erano state le navi negriere. Un flusso continuo lungo la rotta atlantica che dalla metà del Cinquecento aveva iniziato ad affollare le piantagioni di schiavi africani. Venivano principalmente dal territorio Yoruba, tra la Nigeria e il Benin. Approdati nelle colonie, i nuovi venuti portavano con sé i riti delle proprie origini. Le stesse credenze che nei decenni seguenti, mischiandosi al cristianesimo, avrebbero dato vita alla Santeria cubana, al Vudù haitiano e, in Brasile, al Candomblé e alla Macumba.
Sincretismi religiosi. «Nel Nord America, dove i colonizzatori erano protestanti, la conversione degli schiavi avvenne in maniera più netta» racconta Bruno Barba, docente di Antropologia del meticciato all’Università di Genova. Nelle zone in mano a spagnoli e portoghesi, invece, la storia è diversa. Costretti a battezzarsi e ad accogliere la religione cattolica, gli schiavi africani sovrappongono le proprie divinità e i santi cattolici. Creando una sorta di cattolicesimo politeista. «Dissimulando di fatto una conversione che non è mai avvenuta» continua Barba, che per anni ha studiato il Candomblé. «E così ancora oggi molti cubani non trovano alcuna contraddizione nel frequentare la Messa e un rito di iniziazione».
Il manicheismo a cui ci ha abituato il nostro razionalismo qui non esiste. «Ogni divinità contiene al suo interno il principio del bene e del male»
Per capire la Santeria cubana bisogna tornare in Africa occidentale. Immergersi nella cultura Yoruba. Nel culto degli antenati su cui ogni villaggio, persino ogni famiglia, fondava la propria religiosità. «Sono le stesse divinità che una volta giunte nel continente americano perdono ogni caratteristica legata al territorio». Un tempo assimilate a un fiume o una montagna, gli Orishas diventano una generica rappresentazione delle forze naturali. Assumono ideali fattezze antropomorfe, ciascuna simbolo delle qualità e dei difetti umani. Il pantheon Yoruba prevede una divinità creatrice e numerosi Orisha. «Ognuno detiene un particolare potere: la forza, il coraggio, la riproduzione» spiega Barba. Il manicheismo a cui ci ha abituato il nostro razionalismo qui non esiste. «Ogni divinità contiene al suo interno il principio del bene e del male». C’è Oggùn, divinità del ferro e dei metalli, che viene presto assimilato con San Pietro. Babalù Aye, divinità legata agli infermi e alla malattie, si sovrappone con San Lazzaro. Changò, divinità del fuoco e dei fulmini, della danza e della guerra, diventa Santa Barbara. Elegguà è il simbolo degli opposti e protettore dei viaggiatori. Si confonde con Sant’Antonio da Padova.
«Gli Orisha hanno caratteristiche umane – continua l’antropologo Barba – Per questo piacciono e sono venerati fino all’estremo». Le pratiche propiziatorie trasudano passione. La venerazione passa attraverso momenti di trance e stati alterati di coscienza. Un momento rituale fondamentale è quello della possessione, in cui la divinità evocata entra nel corpo del fedele. Uno dei pochi momenti in cui appare evidente la forte corrispondenza tra elementi naturali – la perdita di coscienza, l’aumento dei battiti cardiaci, la sudorazione – ed elementi propriamente culturali. «È l’estasi completa – spiega Barba – Per raggiungerla è necessario avere una profonda devozione». Anche perché le religioni che vengono dall’Africa, a differenza di quelle di derivazione indigena, durante i riti non prevedono l’uso di droghe. Tutto è giustificato dalla fede del credente. In compenso, spesso, non mancano tabacco e rum. «Ma questa – continua Barba – è solo un’ulteriore forma di sincretismo, l’adattamento di queste pratiche religiose al territorio e alla società». Una modernizzazione. Lo stresso motivo per cui Oggùn, divinità del ferro, nel tempo è diventato il protettore di ferrovieri e poliziotti.
Durante la possessione la divinità evocata entra nel corpo del fedele. È necessario avere una profonda devozione. I riti non prevedono l’uso di droghe, tutto è giustificato dalla fede del credente
In queste religioni non esiste una struttura gerarchica unanimemente riconosciuta. Il sacerdote principale della Santeria è il babalawo. «E con lui ci sono una serie di aiutanti che permettono lo svolgimento del culto» spiega Barba, basandosi sulle similitudini tra i vari culti di derivazione africana. E poi ci sono gli iniziati, che per divenire tali devono prima attraversare un rito di passaggio. «Dopo una morte rituale, segue un periodo di tempo in cui si diventa “nulla”. Tabula rasa. È in questa fase che si imparano le complesse ritualità, le cantiche, ma anche il modo di cadere in trance e offrire sacrifici alle divinità». Quando si torna “in vita”, anche le sembianze fisiche possono essere diverse. Una rinascita che spesso i credenti mostrano rasandosi i capelli. La celebrazioni si attuano in onore degli Orisha. Avvengono in occasione di nuovi iniziazioni e in base al calendario rituale. Ed ecco altri sincretismi e corrispondenze con il mondo cattolico. Lemanja – divinità celebrata nel Candomblé a cui corrisponde Yemayà nella Santeria – protettrice del mare e madre di tutti gli Orisha, si sovrappone con la Vergine Maria. E non a caso viene festeggiata l’8 dicembre. Tamburi e danze sono presenti in ogni rituale. Le percussioni hanno un ruolo così centrale da veder riconosciuto persino un ruolo divino. Senza questi strumenti, del resto, non si possono evocare le divinità durante le celebrazioni. Divinità che si manifestano attraverso la danza.
Gli animali da offrire agli Orisha nei sacrifici sono scelti con attenzione. Si tratta principalmente di polli e capretti, che vengono consumati dai credenti durante bacchetti rituali
I sacrifici rituali meritano un discorso a parte. Gli Orisha vengono omaggiati con continue offerte: quasi sempre si trattata di erbe e vegetali, elementi che rappresentano il forte legame con la natura. Eppure talvolta le divinità si nutrono di sangue animale. «Il sangue è un elemento fondamentale – spiega Barba – è relazione e comunicazione». Per questo aspetto, considerato primitivo e crudele, in alcune aree del Sudamerica queste religioni sono state a lungo perseguitate. «Eppure – insiste il docente – i sacrifici in passato erano contemplati anche dalla religione cattolica». Gli animali da offrire agli Orisha sono scelti con attenzione. Si tratta principalmente di polli e capretti, che vengono consumati dai credenti durante bacchetti rituali. «In determinati contesti, per le persone che partecipano ai riti questa è l’unica occasione settimanale per consumare proteine animali».
A differenza degli altri culti dalle radici africane, qualcuno dice che la Santeria prevede solo l’uso di magia bianca. Barba offre un’altra prospettiva. «Questa è una spiegazione dettata dall’ansia di essere riconosciuti». A sentire lui, alcuni rituali propri del Vudù e della Macumba avrebbero un significato meramente simbolico. «Sono dei preparati che il sacerdote consiglia al fedele per avere un vantaggio nella vita. Ma poiché quasi sempre, per raggiungere un obiettivo, bisogna superare la concorrenza di qualcuno, questi riti servono per danneggiare il proprio avversario». I preparati possono contenere vestiti, capelli o raffigurazioni del “nemico” «Ma possiamo serenamente ritenere queste pratiche prive di significati negativi», insiste Barba. Anche perché queste religioni hanno come unico fine la ricerca della felicità. Al contrario della dottrina cattolica, non ci sono comandamenti da seguire. Il paradiso è terreno. «La religione cristiana – spiega Barba – rimanda a una fede estrema. Promette la felicità nell’Aldilà. Queste religioni, invece, lottano per raggiungere la felicità terrena». Ma l’obiettivo non può essere raggiunto a tutti costi. «Ci sono regole sociali che tutti devono rispettare. La realizzazione di ciascuno non può mai passare attraverso l’infelicità degli altri».