È un leitmotiv ormai delle discussioni tra amici, colleghi conoscenti dopo le ultime riforme delle pensioni, e in particolare dopo la tanto odiata riforma Fornero, “lavoreremo fino a 70-80 anni”. Chi non l’ha mai sentito?
La gran parte di coloro che così parlano in realtà non pensa veramente che accadrà anche a lui, forse perché non viviamo in Paesi anglosassoni come Usa o Inghilterra, o, meglio ancora, in Islanda, Corea del Sud, Giappone, Israele, Norvegia, dove secondo i dati Ocse il tasso di occupazione sopra i 65 anni supera il 10% e in alcuni casi il 20 per cento.
È interessante notare che di fatto appare più facile trovare al lavoro qualcuno di questi attivi anziani americani, svedesi, israeliani che dei giovani italiani tra i 15-24 anni, considerando il tasso di occupazione del 16% di questi ultimi. Di più. È più probabile che un arzillo 68enne coreano o islandese sia al lavoro che una delle donne del nostro Mezzogiorno, dove lavorano solo tre su dieci.
Nel complesso i dati dell’Italia, come quelli di Francia o Spagna, appaiono infatti molto diversi. Solo il 3,7% degli ultra-65enni sono occupati nel nostro Paese, e ancora meno, 2,3%, Oltralpe e solo l’1,6%, record negativo, in Spagna.
Se guardiamo alle differenze per sesso, quasi un uomo su due in Islanda lavora in tarda età, e se escludiamo Paesi emergenti con ancora molto lavoro agricolo come Colombia e Messico, comunque si sfiora il 30% in Giappone. Molto inferiori i numeri per le donne, anche se in metà dei Paesi OCSE le lavoratrici anziane sono più dei lavoratori uomini over 65 in Italia
È una tendenza che è andata man mano aumentando nel corso degli ultimi 30 anni, in particolare nei Paesi del Nord e in quelli anglosassoni, nei Paesi Bassi, in Svezia, in Australia, sia tra gli uomini che tra le donne. Tra i principali Paesi europei si notano i trend di Regno Unito e Germania che stanno seguendo, a distanza, gli stessi modelli d’Oltreoceano.
È curioso osservare che negli anni Ottanta l’Italia aveva addirittura più anziani al lavoro (in agricoltura?) del Regno Unito, e fino al 2004 anche della Germania. Fino al 1992 si superava anche la media europea.
Una svolta c’è stata intorno al 2000, quando gli over 65 al lavoro hanno cominciato ad aumentare in Germania, Inghilterra, Usa, superando presto la proporzione del 1985, anche di molto. E in particolare tra le donne, tra cui vi è stata un’impennata.
Da un lato abbiamo quindi un modello come quello americano in cui ad aumentare è anche la proporzione dei lavoratori sopra i 75 anni, passati in 20 anni dal 9% al 15%, con un trend che questa volta non pare essere stato replicato neanche nei Paesi europei più simili.
D’altro lato un mondo completamente diverso, in Italia, Francia e Spagna, dove la proporzione di lavoratori anziani rimane sotto il 4 per cento. E però dove ci sono movimenti, anche se ancora poco percepibili, con l’inversione di un trend di discesa dal 2004-06, con l’aumento in Italia dal 3,1% al 3,6% e dal 1% al 2,3% in Francia. È un primo effetto dell’aumento dell’età per la pensione di vecchiaia, a 66 anni dal 2011, o anche un segnale di una tendenza di avvicinamento a modelli americani o nordeuropei?
Forse non tutti saranno d’accordo, ma secondo alcuni studi americani questa permanenza al lavoro non pare una cattiva notizia. Secondo il Brookings Institution negli Usa il 61% dei lavoratori tra i 62 e i 74 anni aveva un dottorato o era un professionista, insegnanti, medici, avvocati, top manager.
Sembra esserci un legame con l’istruzione, considerando che se nel 1985 solo l’11% dei 60-74enni aveva una laurea, nel 2011 erano il 32% e di conseguenza un maggior numero di persone svolgeva lavori da “colletto bianco”, tollerabili anche in tarda età, con beneficio per le tasche dei lavoratori, e, nel caso di un modello europeo, per le casse dello Stato.
In Italia quelle cifre sulla proporzione di laureati in realtà si ritrovano solo tra i più giovani, anche questo spiega il divario nelle statistiche sugli anziani al lavoro. E tuttavia, posto che l’innalzamento dell’età pensionabile renderà “d’ufficio” i nostri dati più vicini a quelli inglesi o americani, l’unica strada perché questo non appaia come una condanna, ma un’opportunità, addirittura una scelta, è avvicinarsi a Usa, Regno Unito, Germania, anche nelle statistiche sul numero dei laureati, sulla produttività del lavoro, sulla quota di occupati nei servizi avanzati, nella ricerca e nell’Ict. Come se fosse facile.