La buona notizia è che i finanziamenti su cui si sostiene l’Isis stanno crollando. La cattiva è che per un attentato come quello di Bruxelles e quelli di Parigi del 2015 non servono milioni ma meno di 10mila euro, che si possono trovare in pochi mesi o con una singola rapina. La buona notizia è che l’Italia è marginale nei flussi di finanziamento ai terroristi ed è appena stata promossa da un’indagine da parte del Fondo monetario internazionale per conto del Gruppo di azione finanziaria internazionale. Le cattive notizie sono che le nostre istituzioni sono troppo dipendenti dalle verifiche autonome delle banche; che commercialisti e avvocati si stanno dimostrando troppo poco trasparenti, a giudizio sempre del Fondo monetario. Che in assenza di una maggiore cooperazione da parte delle stesse banche, mancano certezze assolute che chi investe in Italia da Paesi del Golfo non abbia tra i soci qualche finanziatore del terrore (non necessariamente dell’Isis). E, soprattutto, la cattiva notizia è che i money transfer, soprattutto quelli piccoli di società che abbiano ottenuto una sede legale in un Paese europeo, rimangono dei canali ancora pochissimo controllabili. Sono coinvolti in praticamente tutti gli episodi scoperti di finanziamento al terrorismo. E rappresentano tuttora un modo di far arrivare i soldi, in modo indiretto tramite la Turchia o la Giordania, nello Stato Islamico, attraverso il contrabbando di contanti e la corruzione dei controllori.
Isis senza più soldi
La strage del Bataclan ha dato una sveglia. Nel G20 straordinario di Antalya, subito dopo gli attacchi del 13 novembre a Parigi, fu deciso di avere un approccio molto più duro. Era il vertice nel quale Vladimir Putin disse «L’Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20». Ci furono delle sollecitazioni a cambiare gli standard dei singoli Paesi, in modo, per esempio, che pagare un viaggio di un foreign fighter fosse considerato da tutti un finanziamento al terrorismo. La misura più evidente fu però di carattere militare, relativa ai pozzi petroliferi nello Stato Islamico. Fino ad allora la strategia degli Occidentali che stavano bombardando l’entità para-statale si erano limitati a colpire i convogli che trasportavano il petrolio e le strade. Avevano evitato di bombardare le raffinerie, per due motivi: il rischio di fare molte vittime civili e i costi enormi che ne sarebbero derivati nella fase dell’eventuale ricostruzione post-bellica. Il segno del cambiamento della strategia la dà a Linkiesta Ludovico Carlino, senior analyst del centro di studi strategici e militari Ihs Jane’s di Londra. La capacità produttiva, spiega, è passata dai 34mila barili al giorno dell’estate 2015 ai 21mila di oggi, con una contrazione di oltre un terzo. La stima sarà pubblicata a breve in un paper di Carlino e Linkiesta è in grado di darla in anteprima. Secondo le stime qualche mese fa di Ihs Jane’s, il petrolio è la seconda fonte di finanziamento dell’Isis (e non la prima come molti hanno riportato in questi mesi), pari a circa il 35% del totale. Il 46-47% viene invece dalla confisca di terreni e case e dall’estorsione che si applica su tutte le attività commerciali, dalla distribuzione (per esempio per i grossisti di frutta nei mercati) al commercio al dettaglio. Tali estorsioni sono mascherate da tassazione volontaria e così giustificate religiosamente. Anche queste entrate sono in caduta libera, perché dall’estate 2015 l’Isis ha perso non solo il 18% del territorio, ma un terzo della popolazione in esso residente, da nove a sei milioni di persone. Ci sono poi le altre fonti di introito: “tassazione” sull’elettricità, rapimenti, commercio di antichità, commercio di droghe e sigarette. Ci sono poi i finanziamenti che arrivano da parte di individui, prevalentemente dei Paesi del Golfo. E, collegata a questi, la “cresta” che viene fatta nel cambio dei contanti che vengono inviati (un espediente che permette di non applicare interessi e quindi di rispettare formalmente i dettami della finanza islamica).
La capacità produttiva petrolifera nel territorio dell’Isis è passata dai 34mila barili al giorno dell’estate 2015 ai 21mila di oggi, con una contrazione di oltre un terzo. Anche la popolazione è scesa di un terzo e con essa i soldi delle estorsioni
Donazioni sporche di sangue
Quanto pesano questi finanziamenti? «Per una parte minima», risponde Carlino. La valutazione è confermata da studi di altri centri di analisi, quali il Taft (Financial Action Task Force), un organismo per il contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo che fa capo al G20. Come riportato in una precedente analisi de Linkiesta, le donazioni dovrebbero essere nell’ordine delle decine di milioni di euro. I grandi accusati sono i donatori privati del Qatar e dell’Arabia Saudita e le istituzioni finanziarie del Kuwait. Ma poi ci sono una serie di micro-donazioni che arrivano soprattutto attraverso associazioni “caritatevoli” usate come copertura.
Il fatto che questi finanziamenti siano marginali per i conti del Califfato non significa, aggiunge Carlino, che siano da sottovalutare. In primo luogo perché rappresentano una fortissima fonte di finanziamento per gruppi come Al Qaeda, Al Nusra e le altre formazioni islamiste che vanno dal Caucaso alle Filippine.
Pochi spiccioli per un attentato
Il secondo motivo ci riporta alle stragi del 21 marzo a Bruxelles. Questi passaggi di denaro servono a finanziare anche le cellule terroristiche in Europa, come quelle che hanno colpito Parigi e Bruxelles. «Le fonti di finanziamento delle cellule terroristiche sono di due tipi – spiega Carlino -. Ci sono persone in Siria e in Iraq che sono riuscite a fornire somme di denaro per comprare le armi e affittare le auto. Così è avvenuto in passato ed è mia opinione che sia anche questo il caso». La seconda fonte è quella delle attività criminali commesse in luogo. Così, aggiunge il ricercatore, era avvenuto anche per i fratelli Coulibaly, gli attentatori della strage di Charlie Hebdo. La cosa più preoccupante è che non si tratta di grandi somme. «Per queste cellule si tratta di trovare 7-8mila euro in pochi mesi. Questa è una stima del costo degli attacchi di Charlie Hebdo. In quell’occasione gli attentatori comprarono le armi grazie al prestito che aveva ottenuto un amico dei terroristi». Diventa allora fondamentale, aggiunge Carlino, riuscire a individuare piccoli movimenti di denaro sospetti, un’operazione fondamentale per prevenire degli attacchi. Altre stime per gli attentati di Bruxelles alzano il conto a 50mila euro, a fronte di un danno stimato da Ihs per il Belgio in 4 miliardi di euro tra minor turismo e calo della fiducia dei consumatori.
«Per le cellule terroristiche in Europa per preparare attentati come quello di Charlie Hebdo bastano 7-8mila euro»
Il lato oscuro dei money transfer
A sentire tutti gli esperti di finanziamento al terrorismo e riciclaggio, i sistemi di monitoraggio per contrastare il terrorismo si incagliano contro un muro, quello dei money transfer. «In tutti i casi di finanziamenti trovati e sventati c’è stato di mezzo un money tranfer», dice Carlino. I motivi della preferenza di queste vie sono due: in primo luogo è l’unico modo per fare arrivare oggi dei soldi nel cosiddetto Califatto dove tutte le istituzioni bancarie sono bloccate. Il meccanismo prevede un invio di soldi tramite i money transfer («magari non quelli famosi come Western Union») verso gli uffici di zone come il Sud della Turchia o la Giordania. Da lì vengono prelevati i contanti e portati oltre le frontiere. «Ovviamente non si potrebbe, ma con la corruzione le guardie di frontiera chiudono gli occhi. Questo accade anche nel territorio del Kurdistan iracheno, sono cose comuni nelle economie di guerra».
La seconda ragione ha a che fare con l’opacità di questi sistemi di spostamento di denaro. «Sono il vero lato oscuro delle transazioni finanziarie», dice Mario Turla, uno dei massimi esperti di antiriciclaggio in Italia. Il motivo è che quando si mandano dei denari con i money transfer, non ci sono dei bonifici. Si fanno delle compensazioni tra gli uffici facendo la somma algebrica dei vari versamenti. A fine mese, gli uffici si appoggiano a una banca e fanno i bonifici, che però non tengono conto delle singole transazioni. A complicare il tutto c’è il fatto che queste società hanno spesso le sedi legali al di fuori dell’Italia e questo rende più difficili i controlli da parte delle autorità nazionali. Inchieste giornalistiche come una portata avanti da Report hanno mostrato come in un solo anno i soldi partiti da Reggio Emilia agli Emirati Arabi sia passato da 41mila (2013) a 448mila euro (2014), a cui si aggiungono i 300mila euro partiti da Parma. Cifre quantomeno sospette perché né a Reggio né a Parma risultano immigrati provenienti dagli Emirati.
«I money transfer sono il vero lato oscuro delle transazioni finanziarie»
Il pericolo sottovalutato: le carte prepagate
Oltre ai money transfer c’è un secondo buco nero che elude i controlli, aggiunge Turla, quello delle carte prepagate. «È un mondo flessibile e molto poco controllato. Se io carico dei soldi da uno sportello a Milano, li posso ritirare in qualsiasi parte del mondo». Il punto è che sembrano esserci pochi controlli sugli intestatari. «Ho visto intestazioni di carte prepagato a un soggetto che contemporaneamente prelevava somme in Marocco e in Sud America. È chiaro che c’erano persone diverse che utilizzavano i dati della carta», spiega il consulente antiriciclaggio. Non solo: «L’altro aspetto poco noto – aggiunge – è che esistono carte prepagate anonime, che si possono acquistare anche nei negozi degli operatori telefonici. È tracciato solo il codice fiscale iniziale e hanno somme limitate di ricarica, fino a 2.500 euro all’anno, ma piccole somme una dopo l’altra fanno grandi somme». Le carte ricaricabili sono a conoscenza dell’Uif, che più volte negli ultimi anni ha diramato comunicazioni per sottolineare i rischi e invitare i soggetti obbligati a monitorare attentamente le operazioni anomale.
Commercialisti sotto accusa
Turla punta anche l’indice contro i commercialisti. Sebbene siano tra i soggetti obbligati a segnalare le transazioni che coinvolgano persone inserite in liste di sospettati di terrorismo, come le banche e gli altri operatori finanziari, sembra che questo obbligo sia in larga parte disatteso. «L’ordine dei commercialisti non ha messo a disposizione dei commercialisti la lista dei soggetti sospettati – afferma -. Ho parlato con diversi commercialisti e ho avuto la conferma diretta che non fanno questo tipo di controlli». Un controllo sul sito dell’Ordine nazionali dei commercialisti mostra come il 15 marzo 2016 (una settimana prima degli attacchi di Bruxelles) una nota del presidente dell’ordine nazionale invitasse i presidenti degli ordini locali ad attrezzarsi e a mettersi in regola con quanto previsto dalla Quarta Direttiva Antiriciclaggio (Dir 2015/845/Ue). «Si rende pertanto necessario per la nostra professione strutturarsi per condurre un’analisi di tali rischi in modo sistematico e permanente», si legge in un comunicato che specifica che lo strumento prescelto è un (lungo) questionario da compilare per segnalare il livello di rischio delle varie attività.
Quelle di Turla non sono parole isolate. Vengono supportate dal documento ufficiale di più alto livello sul tema del contrasto al terrorismo. Si tratta del “Mutual Evaluation Report” stilato dal già citato Taft. Tali rapporti vengono stilati periodicamente relativamente a vari Paesi e nel febbraio 2014 è toccato all’Italia finire sotto esame. Il giudizio, va anticipato, indica per l’Italia un rischio basso ed è largamente positivo quanto agli strumenti normativi e operativi di contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, grazie all’esperienza che il nostro Paese ha maturato in anni di lotta alle mafie. Un ruolo riconosciuto al punto che l’Italia è stata messa a guidare, assieme agli Stati Uniti e all’Arabia Saudita, uno dei nuovi tavoli internazionali di contrasto al finanziamento del terrorismo, il Gcfi (Isil Counter-Financing Work Group).
Tuttavia ci sono alcune zone d’ombra che vengono denunciate nel rapporto e una riguarda proprio i commercialisti e gli avvocati, ai quali viene chiesta più trasparenza. «Il reporting dal settore “nonfinancial” è generalmente povero, specialmente tra gli avvocati e i commercialisti, ma in crescita», si legge nel report.
«Ho parlato con diversi commercialisti e ho avuto la conferma diretta che non fanno controlli antiterrorismo»
Onlus opache e falle di sistema
Altri problemi segnalati dal Taft relativamente all’Italia riguardano le organizzazioni non a scopo di lucro. «Il grosso del finanziamento al terrorismo passa attraverso piccole donazioni. Sono soldi puliti, che vengono da famiglie, che vengono convogliati su onlus che, come degli hub, finanziano il terrorismo. Quello che bisogna fare prioritariamente – continua Turla – è proprio monitorare più da vicino le transazioni che riguardano le onlus, soprattutto se prendono la strada non solo di Paesi del Medio Oriente, ma anche di Belgio e Francia. Questo purtroppo non si fa abbastanza». Il report del Taft aggiunge un dettaglio: «non c’è un approccio focalizzato e coordinato tra le agenzie per supervisionare le organizzazioni non-profit; comunque, le LEAs (istituzioni responsabili del rispetto della legge, ndr) hanno imposto sanzioni amministrative. Il principale ministro responsabile delle organizzazioni non profit, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, non è integrato con il lavoro del Comitato per la sicurezza finanziaria (Fsc); perciò un settore chiave è escluso dall’organismo di coordinamento nazionale per la strategia sul finanziamento del terrorismo (Tfs)».
I controlli sulle banche
Le banche, dati alla mano, sembrano prendere più sul serio l’obbligo di bloccare e segnalare alle autorità le transazioni che riguardino i soggetti inseriti nelle liste dei sospettati per terrorismo. Nel corso degli anni le segnalazioni sono aumentate. Nel 2014, secondo l’Uif, le segnalazioni sospette per finanziamento del terrorismo erano state in tutto 93: 31 nel primo semestre, 62 nel secondo. Nei primi sei mesi del 2015 si è arrivati già a quota 131, con una crescita di oltre il 300 per cento, con picchi soprattutto in Emilia Romagna. Delle 131 segnalazioni, 93 arrivano da banche e poste, 24 da altri intermediari finanziari, 14 da professionisti. Se si contano tutte le attività di riciclaggio, la cifra sale a 71.758 segnalazioni.
Chi investe in Italia è legato al terrorismo?
Siamo quindi sicuri che tutto quello che passa dalle nostre banche e poste sia sicuro? E soprattutto, siamo sicuri che questo valga nel caso di investimenti di gruppi stranieri in Italia? Dal Dipartimento del Tesoro del ministero delle Finanze fanno notare come la normativa antiriciclaggio sia molto stringente e preveda che, nel caso di transazioni di imprese, siano scandagliati i nomi dei singoli soci.
Ancora una volta è il Taft che alza il sopracciglio, facendo notare come le autorità siano eccessivamente dipendenti dalle “due diligence” (controlli approfonditi) delle banche nei riguardi di queste transazioni. «Siamo sicuri che siano realmente scandagliati i singoli nomi dei soci e non solo dei rappresentanti legali delle filiali italiane delle società? – si chiede Turla -. Onestamente non so dare una risposta».
Di certo, secondo tutti gli esperti, non è affatto semplice dare una risposta che non sia avventata alla domanda sugli eventuali rapporti di qualche socio degli investitori del Golfo e il terrorismo. «È come chiedere a qualcuno in Calabria, la mia regione di origine, se un supermercato appena costruito abbia o meno avuto soldi dall’ndrangheta», risponde Ludovico Carlino. Al massimo è una questione di opportunità, ragiona Silvia Figini, docente di Metodi quantitativi per l’analisi economica all’Università di Pavia. «È vero che non possiamo sapere queste informazioni, ma se c’è un processo culturale volto a limitare i danni del finanziamento al terrorismo, è questione di responsabilità decidere cosa permettere e cosa no».
«È vero che non possiamo sapere se i fondi che investono in Italia siano legati al terrorismo o no, ma se c’è un processo culturale volto a limitare i danni del finanziamento al terrorismo, è questione di responsabilità decidere cosa permettere e cosa no»
I Big Data contro il finanziamento al terrore
La professoressa Figini pensa però che si possa andare oltre le considerazioni di prudenza. Con un gruppo di studenti dell’Università di Pavia ha messo a punto un sistema di ricerca sofisticato, che combina strumenti di statistica, strumenti giuridici ed economico-finanziari. Il risultato è un algoritmo anti-riciclaggio che è già stato presentato al Dipartimento del Tesoro, riscontrando interesse. «È uno strumento che consente pressoché in tempo reale di analizzare tutte le transazioni che gli intermediari finanziari hanno l’obbligo di registrare e che consente di individuare operazioni sospette anche non esplicite, per esempio quelle effetto di triangolazioni». Tale algoritmo si basa sui dati dell’archivio unico informatico.
L’algoritmo messo a punto dall’Università di Pavia combina mette assieme ed elabora i dati provenienti da varie fonti. Compresi i profili Facebook e Linkedin dei sospettati
Ma l’utilizzo dei big data da parte del gruppo di lavoro dell’Università di Pavia si sta spostando più avanti. Innanzitutto utilizzando anche i social network che conosciamo. «Siamo al lavoro per catturare tutto quello che un soggetto può scrivere su Facebook e Twitter o Linkedin, allo scopo di profilare perfettamente ogni soggetto e capirne il profilo di rischio», spiega Silvia Figini.
Un gruppo di studenti del biennio stanno lavorando a una versione del software più specifica per i finanziamenti al terrorismo. Si potranno ad esempio tracciare i prelievi sospetti di contante, perché troppo frequenti, o le operazioni ripetute appena al di sotto di determinate soglie che fanno scattare i controlli. Si incroceranno inoltre i dati che provengono dall’European anti-fraud office (OLAF) e i movimenti che riguardano i Paesi destinatari (ma anche quelli di partenza) più a rischio. L’elenco vede presenti gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, la Turchia, il Pakistan, l’Iran, il Libano, ma anche gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Svizzera, l’Olanda, l’Ungheria, l’Austria e l’India. «Siamo partiti dalle basi teoriche e dall’analisi della normativa e abbiamo visto delle potenziali falle», spiega uno degli studenti impegnati nell’elaborazione dell’algoritmo, Gianluca Cerruti. «Ci ha anche colpito il fatto che i documenti delle autorità italiane ponevano il rischio di finanziamento al terrorismo di matrice religiosa su un livello basso, inferiore a quello di matrice politica. Questo ci ha fatto pensare che ci sia necessità di maggiore attenzione nei controlli».
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