Funziona il Quantitative Easing? È passato un anno dall’inizio dello stimolo all’economia reale voluto dal governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi, che ha inondato i mercati europei di liquidità comprando titoli di Stato, ma l’inflazione è ancora lì che gira attorno allo zero. È vero che la core inflation, cioè la misura depurata dal prezzo del petrolio e di altri componenti molto volatili, è un po’ più su, allo 0,7%, ma è evidente che fosse legittimo aspettarsi qualcosa di più.
Qualche effetto c’è stato, a dire il vero. Soprattutto nel mondo delle variabili finanziarie più “monetarie”, con l’euro che si è indebolito e i tassi sulle obbligazioni governative che sono crollati. Oramai il 50% e più dei titoli di Stato in Europa ha rendimenti negativi. Anche l’Italia, nonostante un debito monstre, paga tassi negativi sui titoli fino a due anni di scadenza. Tutto questo grazie alla domanda ingorda della Bce che spazza via dal mercato 60 miliardi di euro di titoli al mese. Per avere un’idea della dimensione delle operazioni della Bce, ogni mese l’Eurotower acquista titoli europei sufficienti a finanziare un anno e mezzo di deficit pubblico italiano.
Per quale motivo l’inflazione non riparte, allora? Il problema sta nell’economia reale. In parte, a causa del crollo del prezzo del petrolio, in parte per il nuovo rallentamento della crescita economica globale con i timori di una caduta in recessione. La liquidità della Bce, è bene ricordarlo, va alle banche: perché queste ultime dovrebbero aumentare il credito all’economia se gli imprenditori non vedono opportunità di investimento? Se a ciò aggiungiamo il caos causato dalle nuove regole della Banking Union e dai sempre maggiori requisiti di capitale, non si vede proprio motivo per cui le banche debbano erogare credito, consumando capitale. Così, come un cane che si morde la coda, la liquidità generata attraverso l’acquisto di titoli di Stato viene reinvestita, ancora una volta, in titoli di Stato.
I veri vincitori del Quantitative Easing, semmai, sono le aziende esportatrici – perlomeno nel breve periodo – e le finanze pubbliche. All’inizio, infatti, l’indebolimento del cambio aiuta l’export. Ma se si scatena una guerra valutaria, l’effetto è, per dirla con le parole amare del governatore della Bank of England, Mick Carney, semplicemente quello di spostare quel poco di domanda che resta da un paese all’altro, senza effetto alcuno sulla crescita globale. Chi gode del bazooka di Draghi sono quindi solo e unicamente le finanze pubbliche. Con tassi nulli o negativi, infatti, qualunque debito è sostenibile. E qualunque governo, anche quello italiano, si può permettere di erogare bonus e tagliare le tasse, senza effettuare alcuna revisione della spesa.
A ben vedere, questo è quello che vorrebbero ottenere coloro che, di fronte all’inefficacia del Quantitative Easing, propongono di rivitalizzare la domanda “saltando” le banche. In altre parole, la Banca Centrale Europea, al posto di stampare moneta in cambio di titoli, dovrebbe mettere la moneta direttamente nelle tasche dei cittadini. Come? Ad esempio, finanziando direttamente la spesa pubblica. Con buona pace dei puristi di Francoforte, questo è già successo con i vari bonus erogati dal Governo Renzi. Se non ci fosse stato Draghi con i tassi a zero, non avremmo potuto concederci l’extra pizza e birra al mese per dipendenti, poliziotti, insegnanti, così come i vari bonus per le imprese.
Eppure, nemmeno mettere i soldi nelle tasche dei cittadini sotto forma di bonus è sufficiente a far ripartire l’inflazione. In parte perché la convinzione di base è che nessuno, nemmeno Renzi, ha ancora trovato il modo di trasformare la pizza in investimenti. E quindi a fronte di questi regali si preferisce mettere da parte qualcosa, quando la pacchia dei tassi negativi finirà e lo Stato verrà a riprendersi il regalo. Ma soprattutto perché i governi e le tecnocrazie non hanno capito che la domanda si è spostata dalle merci ai servizi di relazione. E quindi si cerca di pompare la domanda di consumi materiali, quando invece la domanda è sulla sanità, l’istruzione, l’assistenza agli anziani e ai disabili, il supporto all’infanzia.
Per avere un’idea della dimensione delle operazioni della Bce, ogni mese l’Eurotower acquista titoli europei sufficienti a finanziare un anno e mezzo di deficit pubblico italiano
Torniamo al punto, quindi. Come possiamo intuire, il giocattolo non si rompe se e solo se rimane la fiducia nella capacità dell’Europa di imporre disciplina fiscale. La moneta e le obbligazioni sono ormai perfetti sostituti, ma solo fino a quando non esiste il rischio che paesi come l’Italia vadano in default, o che l’Euro cessi di esistere. Se aumenta il rischio default, aumenta la domanda di euro come forma di tesaurizzazione, riducendo ancora di più l’inflazione. Oltre un certo limite, però il rischio di default mette a rischio pure l’Euro. E allora inizia la fuga degli investimenti dall’Europa, verso porti più sicuri.
Capite perché Draghi, nel luglio del 2012, aveva detto che avrebbe fatto qualunque cosa per salvare l’Euro, ora? Se la fiducia nella tenuta dell’euro dovesse venire meno, allora tutta questa liquidità potrebbe ritorcersi contro la Bce e alimentare la più classica delle fiammate inflazionistiche. Con crescita reale nulla o quasi e un’inflazione da mancanza di fiducia, le conseguenze per la sostenibilità del debito pubblico in Europa sarebbero estremamente gravi. In altre parole, l’armageddon del Vecchio Continente.
Tocca dirlo quindi: ha ragione Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank. Se il potere disciplinante dei tassi viene meno, il rischio che si generi una crisi difficilmente governabile quando e se i tassi dovessero ri-aumentare. L’inflazione può infatti essere domata dalle autorità monetarie, alzando a piacimento i tassi d’interesse. Ma questo può essere sopportato da economie dinamiche come quelle degli anni ’80 e ’90 e con un debito ridotto. Altrimenti, il rischio è quello del default degli emittenti più indebitati. Non a caso, la Bce sta cercando disperatamente di isolare le banche dal rischio sovrano. Le conseguenze di un default di uno Stato di medio-grandi dimensioni sono tali da mettere a rischio la stessa sopravvivenza dell’euro. Scorciatoie zero, quindi: se vogliamo sopravvivere, tocca stringere la cinghia.