Colpo di scena: Uber e gli autisti americani che avevano portato la società in tribunale, asserendo di esser trattati come dipendenti e invocando i diritti conseguenti a tale status, potrebbero raggiungere un accordo. Se il deal andasse a buon fine, non si terrebbe l’udienza prevista per giugno e attesa dal 2013. Vista la posta in gioco, il contenuto di questa intesa – che deve comunque essere accettata e approvata in sede giudiziale – merita di essere indagato in profondità.
Soprattutto, per cominciare, bisognerebbe volgere lo sguardo alla “pistola fumante”. Se, infatti, la causa in corso di fronte al giudice Edward M. Chen fosse finita nel modo peggiore per Uber – vale a dire con una riclassificazione degli autisti uniti nella class action – si sarebbe rivoluzionato il modello di business che va per la maggiore nel segmento economico dell’on-demand economy: qualificare i lavoratori come autonomi per pagarne i servizi solo nel momento in cui effettivamente lavorano, risparmiando tutti o quasi tutti i costi legati a ferie, orari di lavoro, malattia, assicurazione e previdenza sociale.
Ma procediamo per gradi. Innanzitutto perché l’ultimo episodio pare inserirsi in una catena di eventi in cui può rintracciarsi una certa coerenza. L’accordo proposto da Uber arriva pochi mesi dopo quello raggiunto dal suo maggior competitor, Lyft, patrocinato dallo stesso avvocato. Sempre in queste settimane, AirBnB era alle prese con un’altra negoziazione. Obiettivo? Istituire un canale previlegiato per il reclutamento delle squadre di pulizie. La società di shared hosting intendeva impegnarsi a pagare i lavoratori non meno 15 dollari l’ora, rispettando dunque il livello di salario minimo che in molti negli Stati Uniti, specie tra le categorie meno protette, vorrebbero raggiungere. I vertici erano sul punto di stipulare un “accordo pilota” con uno tra i più grandi sindacati statunitensi (il Service Employees International Union) traendone ottima pubblicità – per AirBnB e per l’organizzazione dei lavoratori – e silenziando per un po’ le polemiche sui prezzi lievitati degli affitti e sul ruolo delle rendite nel mercato immobiliare. La firma dell’accordo è stata per il momento sospesa anche per via dell’opposizione di altri sindacati, che contestano in toto la disruption – secondo alcuni, si tratta di concorrenza sleale – che AirBnB porta nel settore alberghiero. Nessuna teoria complottista, nessun radicalismo da accademia. Eppure, dietro a queste tre iniziative – salutate con sentimenti contrastanti – sembra esserci una strategia chiara, certamente non perversa. I giganti della sharing economy (qualunque sia il senso di questa definizione) ambiscono ad accreditarsi non tanto presso il pubblico dei consumatori – dove già spopolano – ma principalmente agli occhi del regolatore.
Uber ha reso finalmente pubblica la policy di disattivazione degli account, finora arbitraria e confidenziale. Sembra un grande passo in avanti è in realtà la conquista della normalità
Veniamo ora alla proposta dello “storico” accordo tra Uber e le sue controparti. Se tutto filasse liscio, l’accordo varrebbe in California e Massachusetts nei confronti dei circa 385mila autisti ammessi alla class action: una bella vittoria del loro rappresentate, Liss-Riordan. Nel dettaglio, i punti più rilevanti dell’offerta sono sei. Li riassumiamo qui di seguito. In primis, gli autisti rimangono dei lavoratori autonomi e rinunciano alle pretese in tema di riclassificazione. Vedremo più in avanti come proprio questo punto sia al centro dell’accordo (ad ammetterlo è la stessa impresa in comunicato stampa). Intanto, lo scorso settembre Uber aveva inutilmente provato a escludere un numero consistente di questi autisti modificando le condizioni contrattuali. I giudici avevano comunque ammesso a partecipare all’azione di massa anche gli autisti (altri 160mila) che avevano iniziato a usare la piattaforma dopo la firma di una nuova clausola contrattuale che rimetteva le dispute ad una soluzione extragiudiziale (l’arbitrato). La nota del fondatore torna incidentalmente sul tema, ribadendo i risultati di un sondaggio condotto dalla stessa società e che vede il 90% dei rispondenti “desiderosi di non lavorare sotto un capo” (non solo: la maggioranza sarebbe entusiasta della flessibilità garantita dal servizio e dichiarerebbe di ricavare delle somme utili a integrare le finanze mensili con le proprie prestazioni saltuarie).
A seguire, Uber accetta di compensare i suoi “partner” con una somma ingente ma relativamente sostenibile per le sue casse: 84 milioni di dollari e altri 16 nel caso in cui la quotazione della società andasse a buon fine e la valutazione dell’azienda continuasse a crescere nei prossimi mesi. A colpo d’occhio, si direbbe una somma ragguardevole: 100 milioni di dollari, in potenza. Il blog TheRideShareGuy ha fatto i conti, tolto l’onorario dell’avvocato (un terzo della cifra certa, dunque 28 milioni di dollari) e divisa la somma restante per il numero dei ricorrenti, ad ogni “driver” toccherebbe un gruzzolo intorno ai 150 dollari. Si tratta di una cifra pro-rata, dunque i più assidui al volante avranno diritto ad un multiplo della cifra comunque difficilmente superiore a 8mila dollari, secondo i calcoli più generosi.
Due altre clausole dell’accordo sono state accolte molto positivamente dagli stessi lavoratori. Da un lato, Uber ha reso finalmente pubblica la policy di disattivazione degli account, finora arbitraria e confidenziale (in USA e in Spagna le nuove regole sono già consultabili). Laicamente, occorrerebbe ammettere che quello che sembra un grande passo in avanti è in realtà la conquista della normalità. Che i prestatori di un servizio possano conoscere le ragioni in base a cui il loro rapporto – quale che sia la natura dello stesso – possa essere sospeso o risolto è veramente il minimo sindacale. Finora questa materia era stata affidata all’esperienza degli autisti o al passaparola, si è detto che le regole non scritte circa la disattivazione dell’utenza fossero anche usate come minaccia implicita volta a promuovere certe pratiche (puntualità, cortesia, disponibilità) e inibire altre (ritardi, rifiuti, lentezze). Una delle maggiori cause di sospensione, com’è noto, è legata alla qualità del servizio reso – valutata dagli stessi consumatori con il sistema di rating per stelline (nel caso in cui le recensioni scendano sotto i 4,6 punti in una scala da 1 a 5, l’autista potrebbe perdere l’accesso al sistema). Uber fa di più, oggi rende visibili questi giudizi lasciati a fine corsa e informa i suoi partner che il calcolo si basa su qualche centinaio di prestazioni rese ed è rapportato alla qualità media del servizio reso in una certa città. Inoltre, Uber fa sapere che tiene in considerazione il tasso di cancellazione delle chiamate prese in carico e quello di accettazione delle richieste. Nulla di nuovo, i blog su cui gli autisti sono soliti scambiarsi dritte e consigli avevano già chiarito che l’“oscuro algoritmo” incaricato di quotarli tiene in conto queste due informazioni. Anche in questo caso, vista dal lato di chi è alla guida, si tratta di un meccanismo raffinato per applicare certe regole: nulla di illecito né di straordinario, ma condotte tipiche di un datore di lavoro “tradizionale”. Il documento rilasciato da Uber, su alcune delle cui clausole non insistiamo (si tratta di quelle volte a contrastare abuso di sostanze psicotrope, truffe e discriminazioni), si conclude con un’offerta di perdono. Per tornare a bordo, basterà dimostrare che ci si impegna a migliorare e che si è disposti a frequentare dei “corsi di recupero”.
Sempre in tema di valutazione, il gigante statunitense di qui a breve inaugurerà dei “comitati di pari” deputati a passare in rassegna i casi di disattivazione, ad oggi inappellabili. Anche in questo caso, si badi, siamo alle prese con un’innovazione positiva. Finora il percorso di espulsione aveva un che d’imperscrutabile, non era garantita possibilità di appello e l’esito era comunicato con una mail standard a cui non era dato rispondere. Da ultimo, Uber precisa che non disattiverà i profili dei suoi partner per così dire “pigri”, quelli – cioè – che hanno un basso tasso di presa in carico di commissioni. Il fondatore giustifica questa scelta con toni ilari: «we understand that drivers need breaks, and sometimes things come up—maybe a kid has gotten sick at school. When drivers aren’t available, we’d just ask they turn off the app» (“Capiamo che gli autisti abbiano bisogno di prendersi una pausa o che – magari – debbano correre a scuola perché i loro figli si ammalano. Quando non siete disponibili, spegnete l’app”).
Inoltre, Uber offre la propria diponibilità a sostenere gli autisti nella creazione di un’associazione tra colleghi (nulla a che fare con un sindacato, comunque). Tali “rappresentanze” saranno sostenute con le risorse della società e ascoltate trimestralmente con lo scopo di raccogliere lamentele e disegnare progetti di miglioramento. Con espressioni trionfali il comunicato stampa dell’avvocato degli autisti rende noto che, con l’accordo in tasca, le autovetture potranno finalmente dotarsi di cartelli che sollecitano le mance. Nei gruppi di driver, da mesi, è proprio questo il tema più caldo: la società si è rifiutata di aggiungere all’interfaccia digitale una schermata dedicata al “tipping” – consuetudine quasi obbligata e piuttosto lauta negli USA (spesso il 10 o anche 20 % della cifra totale). Anche in assenza di questa possibilità, i guidatori hanno congegnato forme supplici e creative allo stesso tempo (spillette ma anche cappellini o tappetini con l’immancabile hashtag #tipyourUberdriver). Molto si è detto su questa conquista, dalla criticità del valore di certe somme agli occhi di cittadini che a stento raggiungono compensi sopra la soglia del salario minimo (di per sé abbastanza basso negli Stati Uniti e oggi oggetto di una battaglia che si pone l’obiettivo di innalzarlo) ai frequenti rischi di discriminazione – dubbi che evidentemente hanno a che fare con la tradizione della mancia in generale.
Uber conserva la possibilità di mettere alla porta i suoi autisti e, ancora, ne le lega le sorti alle valutazioni dei clienti o ai tassi di reperibilità e disponibilità. Per converso, gli autisti continueranno a non poter negoziare liberamente i propri compensi, come pure ci si aspetterebbe da un libero professionista
Proviamo ora a dare un giudizio sui contenuti della proposta. Da un punto di vista eminentemente legale, non si ravvedono vincitori. Dal lato dei promotori della class action nessun tappo deve essere saltato al momento della finalizzazione dell’accordo. Le parole con cui il rappresentante degli autisti commenta la vicenda paiono inafferrabili: «questa causa, grazie alla transazione e all’attenzione tenuta alta, rappresenta un avvertimento a chiunque voglia fare il furbo e farla facile classificando la forza lavoro come autonoma». Questo è tutto da vedere!
D’altra parte, neanche Uber può festeggiare: l’accordo finirebbe per valere in due stati e non impedisce ad autisti fuori dalla California e dal Massachusetts di citare in giudizio la società (altre cause pendono davanti a giudici di Florida, Arizona, Pennsylvania). In più, un messaggio accomodante è stato recapitato all’indirizzo delle autorità legislative e regolatorie: Uber si dimostra disponibile a rinunciare a qualche privilegio che ascrive alla propria immaturità («Siamo cresciuti troppo e troppo in fretta», si schermisce l’amministratore delegato, ammettendo un approccio “shoot first and as later”). Tuttavia, un dubbio permane. Le scelte della società sembrano destinate ad accrescere il livello di confusione attorno al tema della classificazione dei lavoratori. È indubbio che una forza lavoro fatta esclusivamente di professionisti autonomi (i.e. autisti) contribuisca a tenere bassi i costi transattivi, ma la questione giuridica permane.
Il dato letterale di un contratto può essere smentito da una pronuncia giudiziale che prenda atto che – nella realtà – la prestazione si svolge in modo diverso da quanto originariamente pattuito perché, ad esempio, l’autonomia dei lavoratori rimane solo sulla carta. Su questi profili l’accordo nulla può, se non – per l’appunto – contribuire, grazie alle nuove regole, a infittire la coltre d’incertezza sullo status dei lavoratori. I chiarimenti in tema di disattivazione dell’account e la pubblicazione della policy di buona condotta complicano la revisione a cui sono solite ricorrere le corti che passano in rassegna, come detto, le circostanze pratiche e le prerogative del datore o committente. Più intrusivi sono i suoi poteri di dare direttive o istruzioni su come lavorare o di controllare come queste vengano rispettate, meno libero è il lavoratore da un punto di vista tanto organizzativo quanto economico, maggiore è la probabilità che un giudice etichetti quella relazione contrattuale come di tipo dipendente. Su questo tema il confronto in dottrina continuerà a essere acceso.
Va però detto questo: pur alla presenza di qualche aggiustamento, Uber conserva la possibilità di mettere alla porta i suoi autisti e, ancora, ne le lega le sorti alle valutazioni dei clienti o ai tassi di reperibilità e disponibilità – strumenti soft per monitorare il comportamento. Per converso, gli autisti continueranno a non poter negoziare liberamente i propri compensi, come pure ci si aspetterebbe da un libero professionista. È dunque un accordo al ribasso rispetto all’esito potenziale della controversia? Chissà. A detta di Liss-Riordan, legale degli autisti, la causa rischiava di chiudersi con un buco nell’acqua. Allo stesso tempo, il fatto che la questione sia stata transata e non decisa, lascia aperta la strada a ogni decisione in futuro. A conti fatti, il giudice che si vedrà notificato il prossimo ricorso avrà un precedente in meno e qualche grattacapo in più.