Nelle prime ore di sabato 26 aprile 1986, nel nord dell’Ucraina, un test al reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl andò fuori controllo e causò il più grave incidente della storia del nucleare civile.
A trent’anni dal disastro di Chernobyl, l’esatta definizione dei danni per la salute causati agli abitanti della zona sfugge ancora alla nostra conoscenza, mentre gli studi scientifici sembrano arrivare a conclusioni poco confortanti. Si basano, in parte, sull’osservazione delle forme di vita che, da quel giorno di aprile del 1986, sono i veri padroni della vasta area interdetta agli uomini intorno alla centrale: gli animali.
Per quanto riguarda l’uomo, le conseguenze accertate sono poche. «Nel caso di Chernobyl, quello che si è riuscito a osservare – dice Francesco Bochicchio, direttore del reparto sulla radioattività e i suoi effetti sulla salute dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma – è stato un aumento notevole dei tumori alla tiroide».
Il tumore alla tiroide è una patologia relativamente rara e, per fortuna, di rado mortale. Nelle zone più contaminate dal disastro, divise tra Bielorussia (per la maggior parte), Russia e Ucraina, si è osservato un aumento abnorme dei casi dopo il 1986. Il Chernobyl Forum, un gruppo di studio di decine di esperti sotto l’egida delle Nazioni Unite che rilasciò due importanti rapporti all’inizio del 2005, dopo due anni di studi, concluse che circa 4.000 casi di tumore alla tiroide fossero da attribuire alla contaminazione seguita all’incidente. Per il resto, le prove di una maggiore incidenza di altre patologie legate alle radiazioni (oltre una ventina) erano scarse o inesistenti.
Il Chernobyl Forum ha concluso, nel 2005, che circa 4.000 casi di tumore alla tiroide fossero da attribuire alla contaminazione
Nel caso dei tumori alla tiroide, si trattava per lo più di bambini e ragazzi al momento del disastro, con almeno nove casi di morte accertata. Il numero fornito dal Chernobyl Forum è uno dei pochi punti fermi, ancora oggi, nella valutazione delle conseguenze dell’incidente.
Il conto ufficiale dei morti per le conseguenze dirette dell’esplosione del reattore – un vecchio design sovietico con pesanti difetti di progettazione – è di circa trenta vittime: alcuni operatori della centrale e i pompieri che arrivarono sul luogo dell’esplosione e che, con nessuna informazione sulla realtà della situazione, lavorarono per ore nel vano tentativo di spegnere l’incendio del reattore.
Quasi tutti morirono tra atroci sofferenze, nelle settimane e nei mesi successivi, in un piano a loro riservato nella clinica numero 6 di Mosca. Vennero uccisi dalla cosiddetta Acute Radiation Syndrome (ARS), dopo aver assorbito una dose di radiazione centinaia di volte superiore ai massimi stabiliti come sicuri dalle autorità di regolamentazione internazionale. Furono sepolti in bare di zinco, per evitare che la radioattività ancora presente nei loro resti contaminassero il terreno.
Ma a differenza di questi casi eclatanti, capire l’effetto delle radiazioni sui milioni di persone esposte in vario grado alle conseguenze di Chernobyl in tutta Europa è un compito difficile, se non impossibile. Le statistiche mediche nelle zone colpite sono incomplete o poco affidabili, per quanto riguarda gli anni pre-1986, rendendo difficile il confronto. In altri casi, come il cancro alla tiroide, si cominciò a prestare molta più attenzione a quelle patologie, il che può aver portato anche a una certa sovrastima dei numeri.
I morti per le conseguenze dirette dell’esplosione del reattore, secondo le cifre ufficiali, sono circa trenta
Ci sono poi problemi più profondi, legati alla statistica e alla difficoltà delle indagini epidemiologiche. «Anche in Italia – dice Bochicchio – c’è stato, con tutta probabilità, un aumento dei tumori alla tiroide, ma in numeri così piccoli da non essere osservabile. L’Istituto Superiore di Sanità fece delle stime dei tumori attesi, in seguito alla nube di Chernobyl. Arrivò a una stima di tremila tumori mortali in un arco di 40-50 anni».
Distribuiti nell’arco di molti decenni, si tratta di numeri che sfuggono alle possibilità di osservazione. Oltre un quarto di tutte le cause di morte sono di norma dovute ai tumori, e diventa impossibile render conto di alcune centinaia di casi di tumore l’anno – su un totale di circa 150.000. «Non va dimenticato che purtroppo, a parte rarissimi casi – come il mesotelioma per l’asbesto – i tumori hanno diverse cause e non ci sono indicatori» sulla loro causa scatenante, spiega Bochicchio.
Anche nelle zone più colpite, gli studi incontrano alcune difficoltà. «Per Chernobyl – conferma Bochicchio – la situazione non è semplice. La diffusione è su larghissima scala e gli studi epidemiologici, per essere massimamente informativi, devono prevedere di conoscere l’esposizione di ogni singola persona e seguire poi il suo stato di salute fino alla morte. Questo genere di studi è estremamente complicato, e sono pochi gli studi così completi».
Un paradiso?
C’è però un approccio diverso che ha portato a risultati importanti nello studio delle conseguenze del disastro. Anche se l’evacuazione fu decisa con colpevole ritardo dalle autorità sovietiche, nei giorni successivi centinaia di migliaia di persone che vivevano nei pressi della centrale furono allontanate dalle loro case e ancora oggi la cosiddetta “zona di esclusione” si estende per decine di chilometri intorno all’impianto.
L’area venne completamente abbandonata e, da allora, è stata reclamata dalla natura. Molti hanno descritto i dintorni della centrale come una sorta di paradiso terrestre, in cui gli animali sono tornati a vivere in gran numero e, quello che è più importante, senza più l’ingombrante presenza umana. Cinghiali, cervi, lupi, roditori e uccelli sono presenze familiari: una sorta di riserva naturale in uno dei luoghi più contaminati del mondo.
Da circa vent’anni, alcuni gruppi di scienziati hanno deciso di studiare la fauna locale, per provare a capire se le radiazioni avessero in qualche modo influenzato la loro salute e il loro sviluppo. I mezzi di informazione hanno dato molto risalto ad alcune ricerche che, nel corso del tempo, hanno rilevato come il numero dei mammiferi delle aree contaminate, come ad esempio i lupi, non fosse diverso rispetto alle zone sicure o mostrasse addirittura un aumento.
Gli studi generali sulle popolazioni non si occupano, però, di rendere conto delle conseguenze delle radiazioni sui singoli esemplari. Animali che sono stati esposti per lunghi periodi a dosi di radiazioni basse, rispetto ai giorni del disastro, ma comunque molto più alte della norma.
Andrea Bonisoli Alquati, oggi ricercatore alla Louisiana State University a Baton Rouge (USA), è stato a Chernobyl per la prima volta nel 2007 e ci è tornato poi tutti gli anni tra il 2010 e il 2013. Fa parte di un gruppo di ricerca, guidato da Anders Møller della Université Paris-Sud e Timothy Mousseau, della University of South Carolina, che ha studiato gli effetti delle radiazioni su diversi animali.
«Senza dubbio, gli studi sugli uccelli sono quelli che hanno affrontato il maggior numero di aspetti», dice Bonisoli Alquati. «Per ora, non c’è paragone rispetto agli studi sui mammiferi che mostrano un aumento del numero di animali nelle aree contaminate. Non c’è un singolo studio sui lupi e sulla loro fisiologia, ad esempio». Quello sugli uccelli, spiega, è un filone che si è sviluppato parecchi anni fa, grazie alla curiosità di Møller e Mousseau e senza che ci fosse una spinta ad approfondire da parte delle autorità internazionali.
«Grazie ad Anders Møller – dice Bonisoli Alquati – abbiamo avuto le prime evidenze di effetti non letali: in particolare nella rondine, osservata fin dal 1990». In quei primi studi, si osservò che le penne apparivano più asimmetriche, segno che lo sviluppo aveva incontrato dei problemi. «Già dal 2006 furono fatti dei conteggi e si osservò che la varietà di specie diminuiva nelle aree contaminate rispetto a quelle meno contaminate; inoltre, gli uccelli arrivano nell’area da un’area più vasta rispetto al passato, il che indica che nelle aree contaminate la sopravvivenza è ridotta, e compensata da immigrazione dall’esterno».
Le radiazioni sembrano avere avuto effetti anche sulla genetica degli uccelli. Uno dei lati positivi dello studio degli animali nella zona contaminata è che, a causa della loro vita più breve rispetto all’uomo, sono passate più generazioni dal disastro, il che permette di farsi un’idea migliore degli effetti a medio e lungo periodo.
Tra gli studi sugli animali, quelli che hanno affrontato più aspetti hanno riguardato gli uccelli
«Durante le mie prime spedizioni – dice il ricercatore – ho verificato che nelle rondini in aree più contaminate c’era una frequenza maggiore di danno genetico, dovuta a una condizione detta “stress ossidativo”». È noto da tempo che le radiazioni creano un eccesso di radicali liberi, in particolare dell’ossigeno: una classe di molecole che danneggia DNA e proteine. Lo stress ossidativo è quella condizione in cui gli antiossidanti prodotti dall’organismo non sono sufficienti a contrastare i radicali liberi. I primi studi del gruppo di Møller sui livelli di ossidazione degli uccelli dell’area di Chernobyl sono stati pubblicati nel 2009.
Ma le osservazioni del suo gruppo di ricerca non si sono limitate a questo. A partire da quell’anno, spiega Bonisoli Alquati, «abbiamo cominciato a campionare altre specie oltre alle rondini e abbiamo verificato, ad esempio, che su un campione di oltre quaranta specie di uccelli c’era un declino delle dimensioni del cervello nelle aree più contaminate». Il primo studio sul tema è stato pubblicato nel 2011. «La causa non è ancora certa, ma potrebbe essere collegato alla mancanza di antiossidanti».
Oltre a questo, «uno degli altri risultati osservati è stato l’incremento del numero di malformazioni e tumori in questi uccelli. Erano già stati dimostrati nelle rondini, sia rispetto a popolazioni di controllo in Italia, Spagna e Danimarca che rispetto a zone vicine a Chernobyl, e sono state confermate in molte altre specie. Le malformazioni erano nelle penne, nelle zampe, e nella presenza di formazioni simili a tumori». Il gruppo ha trovato una correlazione tra livello di radiazioni e numero di malformazioni, tumori e casi di albinismo.
Il fatto che il numero degli animali nella zona di Chernobyl non sia in calo, insomma, non tiene conto delle conseguenze sui singoli individui, e può essere in parte un bilanciamento della scomparsa della presenza umana da quelle zone. E il gigantesco laboratorio naturale nelle centinaia di chilometri quadrati ancora disabitati e pesantemente contaminati, secondo Bonisoli Alquati, può dare indizi persino sui modi con cui funziona la selezione naturale.
È stato osservato un aumento dei casi di tumore e malformazione in diverse specie
«Una delle svolte principali per quanto riguarda il nostro lavoro – dice il ricercatore – è stata la dimostrazione che in alcune specie di uccelli, non si verifica un aumento dello stress ossidativo, ma addirittura l’opposto: a livelli di radiazioni più alti, lo stress diminuiva». Questo risultato, che può sembrare controintuitivo a un primo sguardo e che è stato pubblicato nel 2014 sulla rivista Functional Ecology, indica un adattamento degli animali all’ambiente in cui vivono, in cui i livelli di radiazione sono abnormi.
«Che questo sia un processo evolutivo o una reazione fisiologica dei singoli individui, ancora non si sa per certo», commenta Bonisoli Alquati. «La differenza tra le specie che hanno o non hanno risposto è almeno in parte dovuta al tipo di selezione sessuale che è in atto: è quello su cui sto lavorando ora. L’idea di base è che nelle specie soggette a selezione sessuale, i caratteri secondari come la lunghezza delle penne della coda e la colorazione del piumaggio sono un segnale molto attendibile dell’adattamento genetico allo stress ossidativo».
In alcune specie di uccelli, insomma, i caratteri secondari segnalano qualità del maschio: ma quali? Secondo alcuni studiosi, si tratta della resistenza immunitaria. Lo studio degli uccelli di Chernobyl potrebbe invece portare a concludere che quei caratteri siano invece un indicatore della capacità di adattamento allo stress ossidativo. Se confermata, si tratterebbe di una scoperta importante.
Le conseguenze di Chernobyl sono così difficili da definire, a decenni di distanza, anche per l’unicità dell’evento. Con la parziale e recente eccezione di Fukushima, non ci sono altri casi, fuori dal laboratorio, in cui una porzione così vasta di territorio sia esposta a dosi di radiazioni così alte e per così tanto tempo. Molto resta ancora da imparare su quegli effetti cronici, per l’uomo e non solo, ed è probabile che non si arriverà mai a una piena valutazione degli effetti sulla salute.
Certo, il trauma delle popolazioni coinvolte è difficile da negare e da ridimensionare: già in Chernobyl Forum ha notato, nelle sue conclusioni, che gli effetti più devastanti venivano dalla ricollocazione forzata degli abitanti e da una scarsa informazione su quanto accaduto, che ha portato a un senso di fatalismo e di abbandono.
Svetlana Alexievich, premio Nobel per la Letteratura nel 2015, ha mostrato con chiarezza le conseguenze psicologiche della tragedia. Alla dolorosa descrizione dell’arte si accompagna il lento e cauto avanzare degli studiosi. E se da Chernobyl emergeranno indizi su come l’evoluzione si adatta ad ambienti pericolosi, o sulle conseguenze nel lungo periodo dell’esposizione alle radiazioni, la scienza sarà stata in grado di trovare del buono anche nel disastro.