(GENOVA 1950-MILANO 2016)De Albertis: «Attrarre giovani e innovare senza freni: così le nostre città rinasceranno»

Parla il presidente di Ance e della Triennale di Milano, a pochi giorni dall’inaugurazione della ventunesima Triennale Internazionale: «Le case non sono più musei dell’identità. I temi chiave dello sviluppo urbano sono paesaggio e spazi pubblici. Ma le regole in Italia devono cambiare»

Il presidente della Triennale di Milano, Claudio De Albertis, è scomparso venerdì dopo una lunga malattia. Figlio di Edoardo e di Renata Mangiarotti, fratello dell’ex consigliera comunale Carla, il costruttore era nato a Genova nel 1950. Si era laureato al Politecnico di Milano nel 1976 e da allora era entrato nell’impresa di costruzioni di famiglia, la Borio Mangiarotti.

Il presente e il futuro delle case e delle città, degli oggetti e delle persone, degli spazi pubblici e di quelli privati. C’è tutto, nella storia di Claudio De Albertis. Costruttore e presidente dell”Ance, l’associazione che li rappresenta. Ma anche presidente della Triennale di Milano, che lo scorso 31 marzo ha inaugurato la ventunesima edizione della Triennale Internazionale – la prima del ventunesimo secolo, vent’anni dopo l’ultima – intitolata “Design after design”, il progetto dopo il progetto.

«La nostra ambizione è molto alta ed è quella di capire dove va il progetto nel secolo che stiamo vivendo», spiega De Albertis. Il tutto in una dimensione multidisciplinare – architettura, design, moda, teatro, musica – «perché ognuna in qualche modo progetta il nostro vivere, il nostro lavorare, il nostro tempo libero».

La XXI Triennale è un evento diffuso lungo tutta la città di Milano, «e proprio le città dimostrano di essere uno dei principali luoghi del cambiamento», riflette ancora De Albertis: «La mostra “City after city” che abbiamo allestito nell’area di Expo 2015 parla di migrazione di persone, di megalopoli, di fenomeni spontanei che nascono come gli orti urbani, o la street art».

Com’è la città del ventunesimo secolo?

Dipende. Fuori dall’Occidente, in Asia come in Africa o in Sud America ci sono sempre più megacity. Realtà da dieci, venti milioni di abitanti, caratterizzate da contrasti e contraddizioni. Grande ricchezza e grande povertà, ad esempio. Aree iper-progettate e slum ingovernabili.

Da noi, invece?

In Occidente, invece, il tema è quello delle città che non si espandono, ma si ricostruiscono su se stesse. È quella che definiamo come rigenerazione urbana. E non è un semplice ricostruire meglio una cosa che già esisteva prima, con la medesima funzione. È un processo creativo. La visione dev’essere ampia.

In che senso?

Le grandi aree dismesse, ad esempio. Da noi c’è questa logica di metterci il solito mix: residenziale con un po’ di commerciale. Altrove, invece, si sperimenta, si intrecciano funzioni. Si prova a costruire un contesto sociale che generi creatività e innovazione.

Perché è importante?

Perché poi, in fondo, tutte le città si trasformano dal basso, attraverso processi spontanei. Anche in Occidente.

«Da noi demolire e ricostruire è molto più difficile che altrove. In Italia si parla di rigenerazione urbana, in Francia e in Germania si fa»

In Italia non siamo all’avanguardia, in fatto di rigenerazione urbana, però…

Da noi demolire e ricostruire è molto più difficile che altrove. In Italia si parla di rigenerazione urbana, in Francia e in Germania si fa.

Come mai?

Perché abbiamo regole impedienti, burocrazia lunga, costi elevati. Non solo: le proprietà sono molto frammentate, sia nel privato, dove siamo quasi tutti proprietari di casa, sia nel pubblico, che ha svenduto e frammentato il suo patrimonio edilizio. Non bastasse, siamo un Paese anagraficamente vecchio. Per noi le trasformazioni sono qualcosa che impatta sul contingente. Rotture di scatole, per farla breve.

Tocca attrarre giovani…

Esatto. Anche perché sono persone legate alla contemporaneità. Prendiamo Milano, di cui noi tutti oggi celebriamo il rilancio. Milano, in questi anni, ha avuto una forte crescita della popolazione universitaria. A mio avviso, è uno dei fattori chiave che hanno contribuito a rilanciarla. Perché sono persone legate al tema della contemporaneità. E Milano, se vuole avere un futuro, dovrà essere la città della contemporaneità.

Perché?

Perché le città possono essere straordinari incubatori di creatività e innovazione. E le città più fortunate sono quelle in cui la capacità di innovare non trova freni. Anche a Milano, le parti più vive sono le più spontanee, quelle nate a prescindere e anche un po’ contro le regole. Sono variabili cui anche gli strumenti di pianificazione del territorio dovrebbero tener conto.

In che senso? Che bisogna pianificare pure un po’ di spontaneismo? Non è un paradosso?

Da noi i piani regolatori prima e quelli di governo del territorio poi hanno sempre avuto una logica demiurgica. Oggi, invece, più che ordinare bisogna lasciare liberi e monitorare. La ricostruzione della città su se stessa si dovrebbe fondare su poche regole, che aiutino l’intrapresa innovativa. E poi premiare chi davvero fa da volano alla trasformazione del territorio.

«Siamo un Paese anagraficamente vecchio. Per noi le trasformazioni sono qualcosa che impatta sul contingente. Rotture di scatole, per farla breve»

La filiera edilizia italiana è pronta ad accompagnare questo cambiamento?

È necessario che lo sia. Prima della crisi, si poteva fare qualunque cosa. Qualunque prodotto edilizio fosse costruito, il mercato lo comprava. Alla fine, il progetto non contava nulla. Si poteva fare qualunque cosa. La crisi, oggi, ha dimezzato il mercato. I permessi di costruire del 2015 sono quelli del 1936. È una situazione pesantissima. La domanda è più scarsa, selettiva, esigente. Il progetto è diventato un valore aggiunto.

Lo è diventato davvero?

In teoria sì, la consapevolezza c’è. In pratica, non ci sono ancora risposte. Sono processi che vedono coinvolti un sacco di attori, che devono lavorare in maniera sinergica. Oggi l’impresa di costruzioni ha perso la sua centralità. Tutti ci stanno provando, nessuno ci è ancora riuscito. E oggi l’impresa ha riacquistato un minimo di centralità, ma non è stata ancora capace di costruire un modello nuovo.

Come mai?

È una filiera troppo frammentata. Servirebbero filiere stabili e sinergiche, in cui i diversi anelli della catena, dalla progettazione alla costruzione, siano in grado di supportarsi e di lavorare assieme ai temi della ricerca e dell’innovazione. E poi serve un diverso approccio al marketing. Nell’edilizia non esiste un’azienda che abbia legato il proprio nome a un proprio prodotto, sia esso un modo idi produrre o un particolare tipo di edificio. Il risultato è che all’estero il brand italia sulla casa è riconosciuto solo per i componenti di arredo.

«La gente non vuole il tapis roulant in casa, o la piscina condominiale. Vuole andare fuori, incontrare gente. Perché gli oggetti si dematerializzano e sempre più lo faranno. Perché la sharing economy ha tolto enfasi dalla proprietà delle cose. Oggi conta usarle, non possederle. La casa non è più un museo dell’identità»

Entriamoci, nelle case…

Fino a qualche anno fa le case dicevano tutto delle persone che le abitavano. E tutti spendevano per quel che c’era dentro le case. E lo proteggevano, con allarmi, porte blindate, vetri quadrupli. La casa era un rifugio. E gli spazi pubblici sono stati abbandonati. Oggi invece stiamo assistendo a fenomeni di segno opposto.

Cioè?

Perché le persone sono sempre più sole, ad esempio. E quindi la gente non vuole il tapis roulant in casa, o la piscina condominiale. Vuole andare fuori, vuole incontrare gente. Perché gli oggetti si dematerializzano – prima i dischi, poi i libri, poi chissà – e sempre più lo faranno. Perché la sharing economy ha tolto enfasi dalla proprietà delle cose. Oggi conta usarle, non possederle. La casa non è più un museo dell’identità.

Il futuro è fuori?

Io credo di si, che al centro della nostra progettualità urbana andrebbe rimesso il paesaggio. E che gli spazi pubblici dovrebbero riacquistare quella centralità che altrove hanno sempre avuto. In Francia, ad esempio, nelle grandi trasformazioni urbane come quella delle vecchie officine Renault, sono stati creati degli spazi urbani meravigliosi. Noi però abbiamo leggi mostruose, pure sugli spazi urbani.

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