Un gesuita sudamericano è chiamato a fare pulizia e ordine nella corrotta comunità ecclesiastica. Riassumendo il film nel pitch, è chiaro come sia il dirompente corso di Papa Bergoglio (cui è stato dedicato il biopic “Chiamatemi Francesco” di Daniele Luchetti) l’autentico oggetto di Il Club del cileno Pablo Larraín, pellicola che come il pontefice viene “dalla fine del mondo”, e che arriva da noi a un anno dalla presentazione al Festival di Berlino 2015 dove conquistò il gran premio della giuria.
Il Club, uno dei migliori film dell’anno scorso se non proprio il migliore, è una galleria scavata nella rimozione, in quello che la società preferisce non affrontare, un rifiuto di responsabilità che produce impunità. E la circostanza che i personaggi siano sacerdoti abietti porta il concetto di peccato da un piano spirituale a quello ben più crudo e bruciante di offesa comunitaria.
A Larraín interessa il profilo teologale assai meno della questione pubblica, dell’oltraggio mondano. Pedofili, scommettitori di corse clandestine, nostalgici del regime di Pinochet: i preti da rieducare vivono sperduti in una casa di espiazione a La Boca, villaggio sulla costa cileno.
L’arrivo di un altro prete peccatore, abusatore di un bambino diventato un adulto problematico di nome Sandokan, e il suo suicidio, fanno precipitare la situazione; giunge così padre Garcia, deciso non solo a risolvere il caso ma anche a stabilire il risarcimento per il male compiuto, secondo un piano piuttosto sofisticato, ovvero gesuitico. L’inchiesta di Garcia e la sua finale sentenza non hanno nulla dell’inquisizione, sono piuttosto un disperato e forse ultimo tentativo di dare una funzione alla chiesa, di imporla anche contro le individuali resistenze, di separare, nel regno terreno dell’errore, le tenebre dalla luce.
Fotografato nella livida azzurrità dell’inverno australe, con un prodigioso cast di volti canaglieschi e perduti e una tensione narrativa senza cedimenti, “Il Club” è l’ennesima tappa di Larraín nella buia coscienza nazionale del suo Paese
Fotografato nella livida azzurrità dell’inverno australe, con un prodigioso cast di volti canaglieschi e perduti e una tensione narrativa senza cedimenti, “Il Club” è l’ennesima tappa di Larraín nella buia coscienza nazionale del suo Paese, di cui in un ventaglio formidabile di titoli ha offerto memorabili interpretazioni, tutte in qualche modo centrate sulla massima ferita storica del Paese, ossia la dittatura di Pinochet, un laboratorio di personalità mostruose e nota battente della sua ispirazione che ricorda molte pagine di un suo eccellente e venerato connazionale, Roberto Bolaño (si pensi al romanzo “Stella distante” e a molti dei suoi racconti).
Il succo della indagine nella società e nella coscienza cilena ha trovato nel grande tema dell’impunità la chiave di scrittura per “Tony Manero” (storia di un serial killer ossessionato da John Travolta) e “Post Mortem” (su un addetto dell’obitorio di Santiago, dove arriva il cadavere di Allende), e trova poi uno sbocco di sanzione in “No – I giorni dell’arcobaleno” (il pubblicitario che dà scacco al regime in occasione del referendum dell’88) e infine in “Il Club” (prova generale di questa strategia della tensione narrativa è l’esordio “Fuga”, thriller sulla musica ma soprattutto sull’ossessione, motivo costante della filmografia di Larraín). Sarà curioso vedere che strade prenderà la sua ispirazione nel nuovo progetto dedicato al poeta Pablo Neruda, il Nobel cileno morto nel pieno del golpe.A nemmeno quarant’anni Larraín si è imposto come il migliore autore della sua generazione, capace con cinque film e una intelligente e vivace gestione della sua casa di produzione Fabula di creare una vera scuola per l’intera produzione cinematografica latino-americana, quella che – per esempio – all’ultimo Festival di Venezia ha conquistato i due maggiori premi con “Desde allá” di Lorenzo Vigas (protagonista l’attore feticcio di Larraín, Alfredo Castro) e “El Clan” di Pablo Trapero.
Il giovane maestro cileno ha rilanciato con forza il cinema politico (lui, apertamente progressista, figlio di due importanti esponenti conservatori), ben lontano dalle stinte produzioni ideologiche che la definizione richiama, ma piuttosto concentrato su come “il contesto” sciascianamente sia l’autentico testo da considerare per esplorare l’intimità, l’abiezione, le pulsioni di un individuo. “Il Club” è il nuovo capolavoro di un autore già fondamentale per il cinema contemporaneo: motivo in più per andarlo a vedere, dal 25 febbraio.