Non c’era la tivù, figurarsi la Rete, Facebook e tutto il resto. Le donne avevano appena conquistato il diritto a votare. E non era tanto la disoccupazione a preoccupare gli elettori, c’era tutto un Paese da ricostruire, nel morale e nelle strade. Ma anche settant’anni fa, in Italia, c’era aria di referendum, uno di quelli che avrebbero deciso (per davvero) la storia nazionale.
Il 2 e 3 giugno del 1946, il regime fascista alle spalle, gli italiani dovevano scegliere fra la Monarchia, accusata di non aver arginato la deriva mussolinana, e la Repubblica. E scelsero per quest’ultima, nonostante fossero sostanzialmente spaccati fra le due opzioni e malgrado le accuse di brogli argomentate con vigore dai sostenitori di Casa Savoia. Settant’anni dopo, di monarchici, ce ne sono ancora, anche se ormai confusi fra le minoranze. Non solo discendenti di nobili casate o nostalgici, ci sono anche giovani innamorati del mito monarchico, che immaginano il ritorno di un re (costituzionale) al Quirinale come l’occasione di riscatto di un Paese in perenne crisi di credibilità. Avessero una rappresentanza partitica – ma ufficialmente si tratta di qualche migliaio di iscritti a un mosaico di associazioni raramente collegate fra loro – potremmo ritrovare anche molti di loro nelle fila dell’anti-politica imperante, certo in una versione più elitaria e tradizionalista.
«Dopo settant’anni può esserci una monarchia 2.0 che difenda l’unità nazionale e la sua storia. Che sia davvero super partes, perché un re non è frutto di una mediazione in Parlamento»
«Non si tratta di tornare al passato, dopo settant’anni può esserci una monarchia 2.0 che difenda l’unità nazionale e la sua storia. Che sia davvero super partes, perché un re non è frutto di una mediazione in Parlamento. Che garantisca la stabilità politica. E che torni a dare un’autorevolezza internazionale all’Italia». Simone Balestrini è il monarchico che non ti aspetti, nel 2016. Ha ventitré anni, è nato a Saronno, dopo Tangentopoli e poco prima che iniziasse la stagione politica berlusconiana, già Seconda Repubblica. Balestrini è il segretario del Fronte Monarchico Giovanile, sezione che raccoglie circa 300 iscritti dell’Unione monarchica italiana fra i 16 i 27 anni.
Studia Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, fa il pendolare, veste come i suoi coetanei, non mette certo in discussione il regime democratico, anzi. Sta sorseggiando un caffè in un bar vicino a piazza San Babila, mentre spiega a Linkiesta di essere rimasto folgorato leggendo da piccolo le storie delle monarchie contemporanee del nord Europa. «Vedo arrivare fra noi tante persone comuni, sempre più giovani che non si fidano dei politici di oggi», assicura Balestrini, convinto della necessità di una rigenerazione morale: chi può contribuire a farlo meglio, è il senso del suo discorso, di una dinastia senza ansie da prestazione elettorale?
Più facile a dirsi che a farsi. Chi sarebbe il re, per esempio? Il principe Vittorio Emanuele o il figlio Emanuele Filiberto, eredi di Umberto II e Maria José. Oppure Amedeo d’Aosta o il figlio Aimone, ramo cadetto dei Savoia che sarebbe legittimato alla successione perché Umberto non riconobbe il matrimonio del figlio con Marina Doria. La disputa è decennale e divide le varie associazioni monarchiche, anche se i giovani non se ne appassionano più. Prima di tutto però c’è un problema di fondo da affrontare: ottenere la cancellazione dell’articolo 139 della Costituzione, che sancisce che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Una rivendicazione che sarà ribadita dall’Unione monarchica (che sostiene la successione Aosta) anche il 28 maggio, quando a Roma si terrà un contro-2 giugno, alle 11.30 alla Casa dell’Aviatore, per dire che la Repubblica «va mandata in pensione».
Altre sigle monarchiche faranno le loro iniziative, perché non tutti si riconoscono nelle posizioni dell’Umi. Ma lo spirito è comune, e la rivendicazione la stessa: che il Governo di Matteo Renzi autorizzi finalmente il rientro in Italia delle salme di re Vittorio Emanuele III (ad Alessandria d’Egitto) e del figlio sepolto nell’Abbazia di Altacomba, in Francia, il re di maggio esiliato in Portogallo.
Fare i conti con la storia resta comunque un esercizio difficile, in un Paese dalla memoria frammentata. Il referendum del 2 giugno, ci risponde Maurizio Ridolfi, docente di Storia contemporanea all’Università di Viterbo, ha stabilito «il senso della rinascita, una vera e propria rifondazione, di uno Stato democratico». «A tanti anni di distanza – aggiunge – è superata la tendenza a considerare la lunga storia della Monarchia italiana e dei Savoia come qualcosa da relegare non solo nel passato ma ai margini della riflessione storica: studi recenti hanno rilanciato e riproposto l’attenzione verso una dimensione importante della nostra vicenda nazionale». Il professore ricorda il ruolo dello Statuto Albertino e anche il fatto che un secolo di storia italiana è stato vissuto sotto la Corona.
«A tanti anni di distanza è superata la tendenza a considerare la Monarchia italiana e i Savoia come qualcosa di passato e marginale: un secolo di storia italiana è stato vissuto sotto la Corona»
Eppure non va dimenticato che i Savoia caddero in disgrazia sopratutto per non essersi opposti alla deriva mussoliniana, molte pagine di quella vicenda restano ferite aperte nella coscienza nazionale. «Non credo – risponde Ridolfi su questo punto – alle rappresentazioni della storia costruite sulla base di presunti “misteri”. Ci sono però momenti della storia italiana sui quali è opportuno ritornare per meglio indagare il comportamento dei sovrani e del potere monarchico. Uno dei momenti chiave coincide con le vicende del 1943, quando non solo il re Vittorio Emanuele, che aveva defenestrato il potere fascista e abbandonato Roma, non rappresentò più la nazione agli occhi di molti italiani, ma si contrapposero anche due repubbliche: quella dei repubblichini, coincidente con la Rsi, e quella “vera”, che riuniva molte delle forze impegnate nella Resistenza».
In settant’anni, gli irriducibili della Monarchia hanno comunque conservato luoghi sacri e riti, che si sono saldamente piantati anche nella storia repubblicana. Al Pantheon di Roma, dove sono collocate le tombe reali, si alternano ogni anno quasi cinquemila Guardie d’Onore, un ente morale di cui è presidente onorario il principe Vittorio Emanuele e che è sotto la vigilanza del ministero della Difesa. Ci sono anziani reduci della Seconda Guerra Mondiale, giovani come Balestrini o cinquantenni come Stefano Di Martino, già vicepresidente del Consiglio comunale di Milano per il Pdl (quota ex An): «E’ inutile oggi riaprire la pagina del 1946, non viviamo di nostalgie. Ma – insiste anche lui su questo punto – uno come me vede nell’istituzione monarchica qualcosa di meglio e di meno divisivo dell’attuale panorama politico italiano, dove non ci sono davvero figure super partes».
Oltre alle Guardie del Pantheon, sotto il figlio dell’ultimo re d’Italia, che vive a Ginevra, stanno anche gli Ordini dinastici, a partire da quello dei Santi Maurizio e Lazzaro. «Sono stati mantenuti dalla Casa Reale sin da Umberto II – spiega Di Martino, Cavaliere di Gran croce mauriziano – Sono stati tenuti attivi soprattutto per le opere di beneficenza, non è una realtà solo di mantelli e medaglie». In quanti se ne possono fregiare? «Siamo circa 2.000 nel mondo, ce ne sono anche negli Stati Uniti. E i discendenti di un certo rango non sono più del 50-60% ormai, ci sono anche impiegati e operai». I più critici con la famiglia di Vittorio Emanuele (noto alle cronache soprattutto per inchieste giudiziarie a volte finite anche in nulla) sostengono che oltre alla tradizione e alla beneficenza che mantiene un importante legame con la terra natale, questi Ordini servono anche a incanalare le risorse delle quote annuali e delle donazioni destinate ai discendenti del re.
Al Pantheon di Roma, dove sono collocate le tombe reali, si alternano ogni anno quasi cinquemila Guardie d’Onore, un ente morale di cui è presidente onorario il principe Vittorio Emanuele e che è sotto la vigilanza del ministero della Difesa. Ci sono anziani reduci della Seconda Guerra Mondiale, giovani e cinquantenni
Politicamente, comunque, oggi in Italia non esiste un partito monarchico anche perché non esiste una figura tanto popolare (e autorevole) da rappresentarlo. Se ci fosse, sarebbe a destra, su posizioni più conservatrici che populiste. Non voterebbe a favore della riforma costituzionale voluta da Renzi, considerata inutile. Sarebbe tendenzialmente su posizioni euroscettiche, per recuperare sovranità e identità. Guarderebbe con simpatia all’impronta nazionalista-identitaria del presidente russo Vladimir Putin. Investirebbe sulla centralità della famiglia: solo più giovani voterebbero a favore delle unioni civili, ma nessuno aprirebbe la discussione sulle adozioni gay. Qualcuno che però ha deciso di fare politica attiva c’è. Italia Reale-Stella e Corona è per esempio una delle sigle monarchiche che spesso presenta candidati alle elezioni amministrative.
«Alle Comunali di Roma avremo dei nostri candidati», dice il presidente, l’avvocato Massimo Mallucci de Mullucci, dal suo studio di Chiavari. Tre anni fa la sua lista a Roma raccolse 618 voti, lo 0,06%. Ora l’area di riferimento è quella di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. «Avremo candidati anche in provincia di Lecco e di Pavia, al Comune di Torino e in alcune realtà campane», aggiunge. «L’Italia – è il ragionamento di Mallucci – è in mano a dei padroni della politica che non hanno alcun controllore. C’è una spinta autoritaria verso la costruzione del pensiero unico, a cui ci opponiamo. E abbiamo ormai una democrazia senza popolo: la metà dei cittadini non va più a votare. La monarchia ha fatto dell’Italia una nazione. E la monarchia può essere oggi utile a riunire il popolo alla democrazia e alla politica».