Cosa hanno in comune Evo Morales (presidente della Bolivia), Rafael Correa (presidente dell’Ecuador), Alexis Tsipras (primo ministro greco), Bernie Sanders (candidato socialista alle primarie democratiche per la Casa Bianca), e i fratelli Castro (capi del regime cubano dalla sua nascita ad oggi)? Rappresentano, con una sequenza di sfumature e differenze anche notevoli, una varietà di leader di sinistra esplicitamente critici della speculazione finanziaria quale architrave dell’economia globale e, in secondo luogo ma non per importanza, si sono tutti incontrati e non per caso con il papa.
Le ragioni, anche in questo caso, sono almeno due: Francesco ha individuato, fin dal principio del pontificato, nel dominio della finanza sull’economia reale, uno dei fattori che determina povertà e diseguaglianze su scala globale, sia fra nazioni e nazioni che all’interno dei singoli Stati. Nella visione del pontefice, inoltre, e secondo una logica collegata al primo punto, i leader dei Paesi poveri o economicamente più fragili, hanno invece lo stesso diritti di parola dei forti e potenti. Il che non significa, naturalmente, che Bergoglio ne condivida per forza le argomentazioni, anzi non mancano i punti critici, e tuttavia la prospettiva del papa è quella di cercar ciò che unisce, i punti di condivisione che permettono il dialogo. E a unire, in moti casi, è la critica al dominio dei mercati finanziari, considerati i veri decisori politici in luogo degli eletti e dei loro rappresentanti.
Evo Morales, Rafael Correa, Alexis Tsipras, Bernie Sanders, i fratelli Castro: una varietà di leader di sinistra esplicitamente critici della speculazione finanziaria quale architrave dell’economia globale. Non a caso sono stati tutti ricevuti dal papa
Per questo, fra l’altro, Francesco si muove come un leader che crede e nel multipolarismo, e quindi lo mette in pratica con un dialogo a 360 gradi nel quale sono coinvolti interlocutori ‘difficili’, vale a dire non molto accreditati nel salotto buono della diplomazia e della politica internazionale. D’altro canto, sostiene il papa con una certa perseveranza, non è che le buone maniere dei Paesi ricchi o dei ricchi speculatori finanziari, siano indice di per sé di un’etica umana, solidale, in grado di tener conto delle persone oltre che del profitto. Al contrario. Per questo i ‘descamisados’ del mondo, o i senza cravatta come Tsipras, Morales e Correa, sono ben accolti dal vescovo di Roma che li prende sul serio pur sapendo che vi sono limiti a volte anche sensibili nelle loro azioni e strategie.
D’altro canto Francesco, l’ex arcivescovo di Buenos Aires, viene da un Paese segnato profondamente dalla crisi, anzi dal defalut del 2001 che innescò un sommovimento sociale e poi politico profondo. E se in passato il rapporto con l’ex presidente Cristina Kirchner ( e prima ancora col marito presidente, Nestor) è stato burrascoso, da quando Bergoglio è diventato papa le cose sono un po’ cambiate. Negli ultimi tre anni, infatti, l’Argentina ha cercato un accordo con i creditori internazionali dopo aver ristrutturato il proprio debito, e se la maggior parte di essi aveva accettato la proposta del governo di Buenos Aires di un pagamento ridotto, un gruppo ristretto ma potente di “hedge fund”, fondi avvoltoi – nelle mani del super finanziere americano Paul Singer – fra l’altro uno dei maggiori sostenitori economici del partito repubblicano negli Stati Uniti – si sono rifiutati di sottoscrivere l’intesa impedendo all’Argentina l’accesso ai mercati finanziari internazionali e spingendo quindi il Paese verso il defalut. In questo frangente il Papa ha cercato di aiutare il suo Paese.
Dopo l’elezione del conservatore Mauricio Macri nel novembre scorso come nuovo presidente dell’Argentina, il negoziato miracolosamente si è sbloccato; il Paese latinoamericano si appresta a pagare ai fondi speculativi che avevano acquistato le obbligazioni del 2001 a prezzi stracciati, ben 9.352 milioni di dollari, una cifra enorme, finanziata attraverso l’emissione di oltre 16 miliardi di dollari di nuove obbligazioni, il che ha dato liquidità immediata al governo Macrì ma probabilmente ‘garantirà’ alle future generazioni e ai futuri governi, una sorta di indebitamente perpetuo e una limitazione dell’indipendenza economica e politica. Non c’è da stupirsi allora, se quando Macri è venuto in Vaticano lo scorso 27 febbraio, l’accoglienza che ha ricevuto dal papa sia stata particolarmente fredda e breve, non più di 20 minuti di colloquio.
A partire da qui si può comprendere anche il dialogo con la Cuba castrista: alla critica al regime, infatti, il papa argentino accompagna – oltre la visione profetica e cristiana di un dialogo che si apre a interlocutori lontani – una lettura latinoamericana dell’esperienza cubana in cui il concetto di indipendenza nazionale ha un valore decisamente centrale.Il problema è la tenuta di una classe media che si vede sempre più indebolita, frustrata e impoverita, mentre i profitti di una minoranza si moltiplicano a dismisura grazie alle speculazioni finanziarie
In tal senso, pure, va vista anche la simpatia con la quale il papa ha guardato ad Alexis Tsipras nei mesi in cui il leader greco provò a mettere in discussione le regole stringenti di Bruxelles in campo finanziario e soprattutto provò senza fortuna a ridiscutere il ruolo delle banche nella gestione di una crisi che rischiava di travolgere il Paese. Allo stesso tempo l’arrivo di Bernie Sanders in Vaticano, il candidato outsider alle primarie democratiche, definito socialista per le sue idee in ambito sociale e di critica alla finanza globale, rientra in questo tipo di attenzione. D’altro canto il fatto che in una certa misura Sanders sia riuscito a diventare un candidato ‘vero’ contendendo a Hillary Clinton diversi stati, la dice lunga sulla polarizzazione politica in corso a livello mondiale e su quanto, in definitiva, i temi sollevati da papa Francesco siano di attualità, tanto che la stessa Clinton ha proposto un nuovo sistema di tassazione proprio per gli hedge fund, i fondi avvoltoio appunto.
D’altro canto se per Paesi come l’Argentina il problema è anche quello, per dirla con il papa, dei poveri, “degli scartati” (per non parlare di nazioni come la Bolivia o l’Ecuador), in nord America – e in Europa – il tema riguarda la tenuta di una classe media che si vede sempre più indebolita, frustrata e impoverita, mentre i profitti di una minoranza si moltiplicano a dismisura grazie alle speculazioni finanziarie. Non a caso è su questo versante che Barack Obama vinse la sua seconda campagna per la Casa Bianca.
E’ dunque lotta di classe in Vaticano, allora? Non del tutto se si pensa al contenuto ideologico della definizione, ma di certo Francesco è fra quelli che hanno posto il problema della diseguaglianza in termini decisamente netti e senza diplomazie linguistiche. Ne è un esempio l’enciclica Laudato si’, dedicata all’ambiente e allo sviluppo nella quale si legge fra l’altro: «La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficentista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana». Per questo “«l salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura». In tale contesto «la crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».