Dal vertice del G5 (Usa, Uk, Italia, Francia e Germania) tenutosi ad Hannover è emersa un’apparente unità sulla questione libica. Gli Stati europei e l’America sarebbero concordi nel sostenere il governo del presidente incaricato Feyez al Sarraj, nato sotto l’egida dell’Onu, perché sconfigga l’Isis e riporti pace e unità nel Paese, e nel pianificare interventi mirati a contenere i flussi migratori che in primavera-estate si teme possano gonfiare la rotta mediterranea. Secondo quanto trapelato si parlerebbe di una probabile missione Nato nel Mediterraneo per contrastare gli arrivi di profughi, di possibili invii di truppe in Libia (addirittura il Corriere della Sera anticipava l’invio di 900 militari italiani per presidiare i pozzi petroliferi libici, come richiesto peraltro da Sarraj, ma la notizia è stata subito smentita dal governo) e di eventuali missioni di supporto all’esercito libico per sradicare lo Stato Islamico.
Si tratterebbe, insomma, di una vittoria diplomatica per l’Italia, che nel corso degli ultimi due anni si è spesa moltissimo per evitare interventi militari unilaterali in Libia – per il timore che ottenessero l’effetto opposto a quello sperato, rafforzando l’Isis e compromettendo qualsiasi sforzo per la creazione di un governo unitario – e perché il tentativo di mediazione dell’Onu andasse in porto. Ma dietro le apparenze si nasconde una realtà più complessa e che, purtroppo, lascia spazio a meno ottimismo. Da quando Sarraj è arrivato a Tripoli, e il governo islamista che aveva occupato la capitale fino a quel momento si è progressivamente sfaldato, il maggiore ostacolo agli sforzi della comunità internazionale per pacificare e soprattutto unire la Libia non è stato l’Isis, ma il generale Khalifa Haftar.
Haftar è il capo delle forze armate che rispondono al parlamento di Tobruk – l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale e che negli scorsi due anni si è opposto a quello “islamista” di Tripoli – e gode dell’appoggio dell’Egitto e delle monarchie del Golfo. Due anni fa ha lanciato l’operazione “Dignità”, con lo scopo di cacciare gli estremisti islamici dal Paese, e a lungo è sembrato l’interlocutore privilegiato dell’Occidente. L’arrivo di Sarraj ha (parzialmente) cambiato le carte in tavola, ma intanto nei giorni scorsi, nonostante l’embargo Onu sull’arrivo di armi in Libia, Haftar ha ricevuto oltre mille mezzi militari. Si tratta di Panthera T-6/T-4, cioè delle Toyota Land Cruiser modificate a scopo militare da due società di Dubai e di Abu Dhabi (ennesima prova del triangolo Paesi del Golfo-Egitto-Tobruk). Formalmente sono stati dati ad Haftar per combattere lo Stato Islamico, ma in realtà si tratta di un modo per garantire l’inamovibilità del generale dall’orizzonte futuro della Libia.
Si tratterebbe, insomma, di una vittoria diplomatica per l’Italia, che nel corso degli ultimi due anni si è spesa moltissimo per evitare interventi militari unilaterali in Libia. Ma dietro le apparenze si nasconde una realtà più complessa
Ad opporsi a questa prospettiva – che ha come probabile corollario una spartizione de facto della Libia, con la Cirenaica controllata da Haftar a fare da appendice dell’Egitto da un lato, e la Tripolitania dall’altro – c’è, sulla carta, un ampio schieramento di Paesi ma in realtà il sostegno di cui gode Sarraj è fragile e fortemente condizionato. La Turchia, che sta propiziando il supporto delle fazioni vicine alla Fratellanza Musulmana al governo di Sarraj, fino a pochi mesi fa sosteneva il parlamento islamista di Tripoli e, se la situazione dovesse precipitare, potrebbe preferire una logica spartitoria ad una unitaria.
Anche gli Stati Uniti sono spaccati al proprio interno: la Casa Bianca – la cui linea ad oggi ha prevalso – sostiene la trattativa Onu mentre il Pentagono, che prima dell’insediamento di Sarraj premeva per avviare i bombardamenti contro l’Isis anche senza una richiesta ufficiale da parte della Libia, mantiene un atteggiamento più interventista. Specialmente se il governo Sarraj non si rivelasse in grado di sradicare lo Stato Islamico dal Paese.
In Europa, poi, la Francia porta avanti una linea ambigua, appoggiando ufficialmente il governo unitario libico, ma mantenendo una stretta relazione economica e diplomatica con gli Stati che stanno provando a sabotarlo: Egitto e monarchie del Golfo. Parigi sta vendendo armi per miliardi di euro a Riad e al Cairo, e la visita di Hollande ad Al Sisi a marzo – mentre l’Italia faceva pressioni diplomatiche sull’Egitto per il caso Regeni – dimostra l’importanza di questa relazione. In Libia la Francia ha quindi un’agenda autonoma – influenzata anche dai suoi interessi nel Sahel, dove conduce una guerra contro i jihadisti – e sue ambizioni geopolitiche (già nel 2011 la Francia era alla guida dei controversi bombardamenti occidentali contro Gheddafi). Non può discostarsi troppo dalle decisioni dell’Onu ma, allo stesso tempo, vuole mantenere buoni rapporti coi suoi alleati della regione ed espandere la propria influenza. Un desiderio questo che, unito alla preoccupazione per la crescita del jihadismo nell’area, condivide anche il Regno Unito.
L’Italia ha, in termini di interesse nazionale (immigrazione, affari, sicurezza), più di tutti da guadagnare dalla riuscita del tentativo di Sarraj e più di tutti da perdere da un suo fallimento
L’Italia ha, in termini di interesse nazionale (immigrazione, affari, sicurezza), più di tutti da guadagnare dalla riuscita del tentativo di Sarraj e più di tutti da perdere da un suo fallimento. Finora ha visto prevalere la sua linea grazie al sostegno di Obama (poco desideroso di iniziare un’altra guerra in Libia, memore dell’“enorme errore” del 2011), al contemporaneo overstretch di potenziali rivali (le forze armate della Francia sono impegnate nel Sahel e anche in Siria) e alla validità delle sue argomentazioni circa la necessità di avere il sostegno di quante più fazioni libiche possibile.
Ma se non sarà trovato un compromesso sul destino del generale Haftar che sblocchi il processo di unificazione del Paese, la presenza dello Stato Islamico in Libia e la diversità di agende tra i vari Stati coinvolti rischiano di portare al naufragio del tentativo unitario di Sarraj. A quel punto il pericolo di una divisione della Libia, o peggio di un suo collasso nella totale anarchia, sarebbe incombente. E i piani di contenimento delle migrazioni e di sradicamento del jihadismo compromessi.