Il 2015 è stato un anno strano. Si sono rotti alcuni trend che da alcuni anni sembravano essere divenuti dei punti fermi nell’economia internazionale.
Non si tratta del ritorno del segno più nella crescita del nostro PIL che Renzi e Padoan ci ricordano a ogni piè sospinto, ma di uno stop a quel modello che vedeva i Paesi emergenti come approdo privilegiato di investimenti che erano destinati sempre ad aumentare, anno dopo anno.
L’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) ci dice che nel 2015 gli FDI (Foreign Direct Investments) sono saliti del 36%, arrivando a 1,7 trilioni di dollari, ma per la prima volta la grande maggioranza di questo aumento è stato dovuto ai flussi in arrivo nei Paesi sviluppati, mentre in quelli emergenti gli investimenti sono saliti solo del 5%.
In Nord America vi è stato un raddoppio, una crescita del 65% in Europa. Male Africa, -31%, America Latina, -11%, e Paesi emergenti ormai quasi “maturi” come la Russia dove gli investimenti sono crollati del 92%, o la Thailandia, che con un calo del 78% soffre la concorrenza delle vicine India (+75%) e Indonesia.
L’UNCTAD sottolinea come questo aumento globale di investimenti sia stato “inatteso” e come escludendo quella parte che riguarda ristrutturazioni aziendali e cambi degli headquarters rimanga una crescita del 15-17%, i picchi del 2007 intanto si avvicinano, ma non sono ancora stati raggiunti
Probabilmente però la novità e il dato veramente inatteso è la resurrezione dell’Occidente: gli USA quasi triplicano gli FDI in arrivo, l’Europa raggiunge i 426 miliardi con un +68% che si è originato sia da movimenti intra-europei che da quelli provenienti da altri continenti.
Guerre, tensioni in Medio Oriente, sanzioni alla Russia, crollo del prezzo delle materie prime, sono vari ma piuttosto chiari i fattori che hanno portato allo stop del flusso di FDI verso i Paesi emergenti, mentre in Europa e USA si rafforzava la ripresa, e l’inflazione a zero invece rendeva necessarie fusioni e acquisizioni per sfruttare le economie di scala in epoca di margini ristretti, il tutto mentre i tassi d’interesse sono a un livello così basso come non si era mai visto, e di cui non si può non approfittare.
E anche l’Italia per una volta sembra non essere mancata all’appuntamento. I FDI diretti al nostro Paese sono aumentati del 45,5% passando da 51,3 miliardi del 2014 a 74,4 del 2015. Tutto bene quindi? In realtà come vediamo ancora una volta siamo cresciuti meno della media europea, che è stata del 68%. Sembra un destino, come per il PIL, come per tutto.
Possiamo consolarci però con un aumento dal 20esimo al 12esimo posto nel ranking del FDI Confidence Index di A.T. Kearney. Abbiamo superato in un anno Paesi come Paesi Bassi, Singapore, Svizzera, Svezia, Spagna, mentre nel 2013 non eravamo neanche calcolati in classifica.
Vedremo come questi guadagni si trasferiranno dalle analisi di economisti e dalle opinioni degli operatori del settore alle scelte delle grandi multinazionali mondiali. Nel frattempo un po’ a sorpresa siamo diventati la destinazione preferita dei capitali cinesi in Europa.
Gli FDI dalla Cina sono passati da 14 a 20 miliardi nel nostro continente tra il 2014 e il 2015, di cui la maggior parte in Italia, grazie alla grande acquisizione di Pirelli da parte di ChemChina che si è comprata la multinazionale italiana con 7 miliardi.
Si tratta quindi di un caso isolato? Non pare, mentre diminuiscono gli investimenti europei in Cina, aumentano quelli cinesi in Europa, l’interesse del Far East pare una realtà ormai strutturale, considerando anche che negli ultimi due anni ha investito più nel Vecchio Continente che in Nord America, al contrario che nel passato, e che quindi una buona fetta di quei 1000 miliardi di FDI previsti fino al 2020 dovrebbero approdare in Europa
E grazie a quanto avvenuto nel 2015 l’Italia è ormai il secondo Paese per investimenti cinesi in Europa dal 2000 ad oggi, uno degli Stati su cui la Cina potrà rimettere i propri occhi anche in futuro.
La sfida però ora è quella di non essere solo terreno di conquista di multinazionali asiatiche o meno, ma di attirare anche i cosiddetti greenfield FDI, ovvero gli investimenti destinati a nuove attività, solo ad acquisizioni. Sono merce rara, aumentati nel mondo solo dello 0,9% nel 2015, ma sono quelli che farebbero la differenza.
E non solo, il nostro Paese rimane ancora troppo indietro come fonte di investimenti, quelli italiani nel 2015 sono sì aumentati, ma del 28%, molto meno degli FDI dall’estero verso di noi.
Non compariamo ancora nei principali Paesi che investono all’estero, rimaniamo dietro anche a Stati più piccoli del nostro come i Paesi Bassi o la Svizzera, ma con multinazionali che noi non riusciamo a possedere, come vediamo nell’elenco dei principali investitori nel Paese che riceve più FDI di ogni altro al mondo, gli USA
E’ la solita vecchia storia di un’economia fatta di piccole e micro-imprese che ogni tanto diventano “multinazionali tascabili”, e che però non riescono a mettere a segno grossi colpi come quelle vere.
Essere players più grossi nel campo degli investimenti significa anche acquisire un maggiore ruolo geo-politico, che piaccia o no. Paesi con multinazionali influenti hanno un potere di contrattazione maggiore anche al di fuori dello stretto campo economico.
Coloro che lamentano lo scarso peso dell’Italia in varie vicende, dala Libia, all’Egitto con il caso Regeni, all’India con quello dei marò, spesso sono gli stessi che si oppongono ideologicamente al ruolo delle multinazionali, peccato che siano in una triste contraddizione.