Li davamo per morti, sepolti con il crepuscolo dei paninari, e invece sono ancora tra noi. Magari con produzioni mignon e inseriti in gruppi societari più grandi, pronti a prendersi una rivincita. Sono i marchi degli anni Ottanta (e primi Novanta), che provano a ripercorrere le risalite stellari, dopo periodi dormienti, di Moncler, New Balance o Converse. E, ancora, di Moleskine, Invicta o Vans. Forse non tutti lo sanno ma sono ancora in attività marchi di moda italiani come Think Pink, Stone Island, Uniform ed Energie. Ci sono le scarpe con le zeppe della Buffalo e Cult. Gli zaini della Seven. Le moto dell’Aprilia e della Cagiva. Le merendine come i Ciocorì e i Mister Day. Fino al Topexan, per non parlare di nomi ancora più storici come la colla Coccoina.
Dalla loro hanno una miniera d’oro: perché «creare un marchio che riesce a distinguersi e a lasciare il segno può sembrare facile ma è difficilissimo – spiega Gianluca Lisi, fondatore di Create! Group –. I marchi sono come delle tartarughe appena nate: pochissime arrivano al mare e diventano adulte». E, a differenza delle aziende, non muoiono. Possono essere “sleeping brand” ma mantengono un valore. Possono essere usati come dei biglietti da visita da usare con le banche e con i fornitori. E poi, al momento giusto, lanciati di nuovo sul mercato.
I marchi, a differenza delle aziende, non muoiono. Possono essere “sleeping brand” ma mantengono un valore. Possono essere usati come dei biglietti da visita da usare con le banche e con i fornitori. E poi, al momento giusto, lanciati di nuovo sul mercato
I destinatari? Non tanto i nostalgici cresciuti, ma chi cerca autenticità e differenziazione, proprio quell’ingrediente che la globalizzazione ha spazzato via. Un giro in un supermercato di un Paese vicino, ancora negli anni Ottanta, era la scoperta di un mondo parallelo; ora è una copia quasi conforme di quel che si trova qui. «Per questo c’è un recupero dei marchi di poco precedente alla globalizzazione, cominciata proprio negli anni Ottanta», commenta il fondatore di Create! Group. Un consumatore che prende un marchio desueto e lo indossa cerca un elemento di distinzione e viene premiato per il coraggio. «È quello che il sociologo Pierre Bourdieu chiamava il gusto del dfficile, è un elemento di status che aumenta il “capitale culturale” di una persona», spiega Lisi. Se il riscopritore ha successo ed è un trend setter, sarà imitato. E l’azienda fa bingo.
Questa è la dinamica sociologica, ma la realtà è più dura. «Per rivitalizzare un marchio servono tanti soldi, Moncler ha dovuto quotarsi per riuscirci – dice Stefania Saviolo direttore del Knowledge Center Luxury & Fashion Master presso la Sda Bocconi -. I marchi un tempo potevano diffondersi attraverso i negozi multimarca. Ora bisogna passare dai monomarca, che sono carissimi. Mentre l’online da solo non basta». Oltre ai soldi serve un ultimo ingrediente, neanche da poco: avere un prodotto iconico, bello o brutto ma riconoscibilissimo. Come le scarpe Converse, i piumini Moncler, lo zainetto di Mandarina Duck o i K-Way, che fanno categoria a sé. Perfino la Coccoina. Per tutti gli altri è dura.
Ecco una selezione di alcuni marchi di cui si erano perse le tracce, o quasi.
Americanino
Uno dei marchi più iconici dei “paninari”, fu creato a Cavarzere (Venezia) da Tato Bardelle 40 anni fa. Diversi i passaggi di proprietà, fino al fallimento nel 2013 della Meta Apparel, che coinvolse anche il marchio El Charro. Il brand è in liquidazione. Esiste una società Americanino anche in Colombia, che utilizza il marchio.
Bontempi
L’azienda di Ancona nel 2017 avrebbe compiuto 80 anni. Nel gennaio 2014 ha richiesto il concordato preventivo. Dalle ceneri della Bontempi sono nate due aziende che hanno rilevato il marchio: la Cooperativa Industria Abruzzo a Martinsicuro e la Icom a Potenza Picena. Alla fine degli anni ’80 a spopolare era la pianola Bontempi System 5.
Boy London
Icona per eccellenza degli anni Ottanta e in particolare del New Romantic Punk, soprattutto per i suoi cappellini da baseball con la scritta BOY. È ancora attiva, soprattutto nel mercato britannico.
Buffalo
Si indossavano veramente. Amate e odiate in pari misura, spopolarono negli anni Novanta, anche se il marchio, tedesco, esiste dal 1979. La linea con le zeppe si chiama Classics. Dato che furono un prodotto iconico, non è detto che non tornino di moda.
Cagiva
Fu fondata nel 1950 ma l’apice lo toccò negli anni Ottanta, quando acquisì la Ducati, la Moto Morini e la Husqvarna. Poi il declino e l’acquisizione da parte di Harley Davidson, che poi la ricedette nell’agosto 2010 a Claudio Castiglioni, fondatore del marchio Cagiva. Dopo la sua morte, nell’agosto 2011, l’azienda è in mano al figlio Giovanni. Per chi era ragazzino nel 1990, la Cagiva era soprattutto la piccola Mito, cilindrata 125.
Carrera
Uno dei marchi più famosi del gruppo del “jeanswear” veneto, fu fondata a Lugo di Grezzana, in provincia di Verona, nel 1965 da Imerio Tacchella e dai suoi quattro fratelli. Il marchio è stato rilanciato, un flagship store monomarca è presente anche in corso Buenos Aires a Milano.
Champion
Era un grande nome dello sportwear americano, sponsor tecnico di molte squadre dell’Nba e dell’Nfl. Esiste ancora e negli Usa conta 34 negozi.
Ciocorì e Biancorì
Sono marchi storici della Motta, assieme alla Girella, al Buondì e allo Yo-Yo. Erano stati acquistati dalla Nestlé, che poi li ha venduti a sua volta al gruppo Bauli.
Coccoina
La Coccoina non molla: dal 1924 è prodotta dall’azienda Balma, Capoduri & C. Odore inconfondibile e oggetto misterioso per chi nel frattempo era cresciuto con le colle stick. Nel frattempo prodotte anche a marchio Coccoina.
CP Company
Oggetto di culto negli anni Ottanta, il marchio è stato creato da Massimo Osti, padre anche di Stone Island. Diversi i passaggi di mano. Dopo essere stato ceduto nel 2010 dalla Sportswear company di Carlo Rivetti alla Fgf Industry di Enzo Fusco, il marchio di capispalla nel 2015 è stato acquisito dalla società di Hong Kong Trivision international (fonte: Pambianconews).
Cult
Nome inglese e iconografia anglosassone, l’azienda è marchigiana. Fu fondata nel 1987 ed è stata nota soprattutto per gli anfibi. Oggi produce anche sneaker.
Energie
Creato nel 1991, il marchio di jeanswear era associato ai “discotecari” anni Novanta. Faceva parte del gruppo Sixty che, a seguito di una lunga crisi, è passato al fondo asiatico Crescent Hyde Park. A farne le spese i 265 lavoratori dello stabilimento di Chieti: dopo oltre 30 anni di attività l’11 ottobre del 2014 sono stati mandati definitivamente a casa.
Mandarina Duck
Il marchio continua a esistere, sotto la proprietà coreana del fondo E-Land. Le promesse di rilancio però sono andate deluse. L’azienda ha chiuso il 2014 con ricavi pari a circa 21 milioni di euro (nel 2007 erano superiori a 78 milioni). Nel dicembre 2015 è stato nominato un nuovo Ceo. Nel marzo 2015 i coreani di E-Land annunciarono la chiusura dello stabilimento Mandarina Duck di Cadriano, in provincia di Bologna (fonte: Pambianconews).
Mister Day
Lo storico marchio della Parmalat è oggi del gruppo dolciario Vicenzi.
Olivetti
I tempi del Pc1, personal computer all’avanguardia di fine anni ’80, ovviamente sono passati. Ma l’azienda esiste ancora. Tra i prodotti registratori di cassa, calcolatrici, stampanti, stampanti 3-D, server e tablet.
Roy Rogers
Il marchio italiano di jeans più storico è ancora vivo. Fu fondato nel 1949 da Mario Bacci (scomparso nel 2009) e divenne di moda negli anni Settanta. Oggi si vende presso i rivenditori autorizzati, online e nei flagship store di Firenze, Roma, Napoli, Forte dei Marmi e Milano.
Seven
Sono di Leinì, vicino a Torino, città dell’Invicta. Ma se quest’ultimo marchio è ancora noto, chi non ha figli in età scolare forse non sa che anche Seven è vivo e lotta in mezzo a noi. Come negli anni Ottanta. Ma ora anche con le rotelle, croce e delizia della contemporaneità.
Sperlari
È dal 1981 che passa di mano da un gruppo straniero all’altro. Dal febbraio 2012è della svedese Cloetta. Gli stabilimenti sono a Cremona, Gordona (SO), San Pietro in Casale (BO) e Silvi Marina (TE).
Stone Island
Altro marchio simbolo degli anni Ottanta, è stato rilanciato. Ha sede a Ravarino e per il 2016 prevede 100 milioni di euro di ricavi, con un aumento del 20% rispetto al 2015, che era stato chiuso con 87 milioni di euro. Il direttore creativo e presidente di Stone Island è Carlo Rivetti. La guida dal 1993 ed è in società dal 1983. Un anno prima l’azienda era stata fondata da Massimo Osti.
Telefunken
Colosso delle televisioni, con una grande fabbrica anche in Italia, a Baranzate (ora un rivenditore d’auto), sopravvive come produttore B2B di prodotti professionali. Strada seguita da molti marchi del settore dell’elettronica.
Think Pink
Fondata in Italia nel 1980, ha avuto successo soprattutto in quel decennio. Venne acquistata dal Tecnica Group nel 1989, per essere poi ceduta nel 2011 alla società Man Socks Italia S.r.l. di Castiglione delle Stiviere (Mantova). Realizza ancora t-shirt e pantaloni sportivi.
Topexan
Ci siamo liberati della pubblicità, ma il Topexan resiste ancora. È uno dei marchi della Soco Spa.
Uniform
Anche in questo caso nomi e immaginario anglosassoni ma produzione italiana, a Barberino di Mugello (Firenze). Emblema dei paninari, il marchio è stato rivitalizzato nel 2003.