Più manna per tutti: per Renzi ogni promessa è a debito

La politica economica del premier potrà anche far vincere elezioni e consolidare un sistema di potere. Ma bisogna fare i conti col deficit. E qui, per la squadra del premier (e per noi) arrivano i dolori

Sono giorni di programmazione economica e fiscale per il Governo Renzi. Dopo aver presentato settimana scorsa il Documento di Economia e Finanza 2016, con l’annesso piano di stabilità italiano, e dopo l’esito del referendum sulle trivelle, molto politicizzato in realtà in primo luogo dal premier stesso, una nuova febbre all’oro sembra percorrere i palazzi della politica.

Non passa giorno senza che i mezzi di informazione, in primo luogo i più vicini al Governo, lascino intendere che una nuova infornata di mirabolanti promesse fiscali sia alle porte, in concomitanza delle elezioni amministrative, in prima battuta, e del referendum confermativo sulle riforme costituzionali poi. Inutile riportare appieno il chiacchiericcio, che di solito è informato sugli obiettivi, ma non abbastanza da avere una visione chiara delle singole misure in cantiere. Basti sapere che il Direttore de Il Foglio Claudio Cerasa, di solito ben informato sulla cerchia di intimi collaboratori del premier – vero motore di ogni politica fiscale futura – si è lanciato nella proposta shock di tagliare le tasse sul lavoro e imprese addirittura sforando la soglia simbolica del tre percento, unico parametro che ancora sembra tenere, quale argine verso ancora più generosi deficit prospettici. Il Lodo Foglio lo ha chiamato, parola terribile e cacofonica in sé, ma che nelle circostanze assume venature di un vero e proprio sogno a occhi aperti.

Davvero il Governo ha in mente passi così temerari, per far quadrare l’equazione che lega consenso a bilancio pubblico? Le parole del Ministro Padoan, in audizione in Parlamento per il Documento di Economia e Finanza (Def), lasciano presagire qualcosa di simile, seppure chi scriva sia dell’idea che i tecnici e i tanti ottimi economisti che consigliano il premier, fino all’ultimo tenteranno di placarne gli istinti da “deficit spender”. Non crediamo perciò, salvo sorprese, che si pensi addirittura di sfidare i partner europei con un deficit allegramente sopra il 3%, in un paese dove il debito pubblico, in rapporto al PIL, è aumentato di un terzo dal 2007, e si assestava alla fine del 2015 sopra il 130%, e la cui dinamica, rispetto agli impegni presi nel passato, non fa presagire nulla di buono. Il debito si è, infatti, stabilizzato, ma a fronte di clausole da sterilizzare, pensioni flessibili da introdurre, bonus culturali da elargire e chi più ne ha più ne metta. In questa corsa alla promessa del “trasferimento” miracoloso, non si comprende come un deficit più alto del preventivato possa aiutare a diminuire lo stock di debito in mano alle nostre banche e agli investitori istituzionali stranieri, a parità di altro.

È molto probabile che lo scudo della Banca Central Europea abbia creato l’illusione che ogni rischio sia alle nostre spalle, e che qualsiasi livello di debito pubblico sia compatibile con la stabilità finanziaria. Lasciatacene dubitare almeno in minima parte, da buoni scettici. Due conti della serva potranno forse, in maniera sbrigativa, aiutare a comprendere la logica dei tanti gufi potenziali che assillano il premier e il suo team di comunicazione.

È molto probabile che lo scudo della BCE abbia creato l’illusione che ogni rischio sia alle nostre spalle, e che qualsiasi livello di debito pubblico sia compatibile con la stabilità finanziaria

Dalle tabelle allegate al DEF, risulta che il debito pubblico, date le politiche in programma, si assesterà alla fine del 2018 al 128% del prodotto. A Settembre 2015, nella nota di aggiornamento al Def, tale livello era fissato al 123%. Sono bastati poco più di sei mesi per far lievitare di 5 punti il livello programmatico del debito pubblico italiano. Di rinvio in rinvio, non si vede come il Governo possa far credere agli addetti ai lavori più attenti che la vera intenzione sia di diminuirlo in modo considerevole, almeno prima della prossima recessione. Perché ciò che si lascia sotto traccia, in tali tipi di argomentazioni, è che la crescita, per quanto rachitica e vicina all’1%, un livello fra i più bassi al mondo, continuerà indistintamente per un numero imprecisato di anni. L’ultima recessione, evidentemente, non ha insegnato molto. Partiti con livello di debito pubblico quasi pari a quello del prodotto, ci si è ritrovati in un sol colpo al limite della sostenibilità finanziaria. Molta acqua è passata sotto i ponti, molte ancore di salvataggio e altre reti di protezione (il Meccanismo Europeo di Stabilità, l’’unità bancaria, il Quantitative Easing) rendono la situazione non paragonabile a quella pre-crisi. Eppure, al lettore attento, non sfuggirà che tali istituzioni sono state costruite secondo promesse e impregni precisi, in quanto a riduzione del debito, che paiono oggi totalmente disattese.

È molto probabile che i nostri partner, in situazioni politiche interne di grande difficoltà – Hollande e Merkel in primis – non abbiano la forza di piegare le ritrosie dello spendaccione italiano di turno. Forse, anzi certamente, anche la precarietà del sistema bancario italiano, altamente interconnesso a quello europeo, sconsiglia di far tirare la cinghia in un momento di turbolenza come quello appena vissuto sui mercati finanziari europei, in questa prima parte di anno.

Insomma, sia come sia, pare che in Europa stiano chiudendo non uno ma tre occhi. Eppure, ricordiamolo nuovamente: le probabilità di un’altra recessione considerevole da qui al 2018, per quanto basse, non sono zero. È quando la recessione colpisce che le tensioni sui debiti pubblici esplodono, quando pochi investitori hanno “il fegato” di avere in portafoglio titoli semi-tossici, e ogni movimento marginale porta con sé un considerevole aumento del rischio percepito.

Lanciarsi nella politica economica della manna per tutti, delle promesse che difficilmente potranno essere attese, potrà anche far vincere elezioni e consolidare un sistema di potere per gli anni a venire. Ma attenzione: in economia, così come nella vita reale, i miracoli hanno bisogno della fede

Vorremmo, infatti, ricordare che un surplus primario di bilancio pari al 1.6% del PIL nei tre anni a venire, e che nei programmi dovrebbe salire al 3.6% nel 2019, probabilmente miracolosamente, è alla mercé di qualsiasi blanda recessione. Basta un piccolo rallentamento futuro della già anemica crescita per scompaginare tutti i conti del Governo. Questo non è gufismo è realismo. Le recessioni sono un fatto, e dopo anni di continua crescita non stellare, anche gli US potrebbero a un certo punto rallentare. Come ci troveremmo in quei casi? Siamo certi che il nostro debito pubblico, e a cascata il nostro già martoriato settore bancario, non ne uscirebbe a pezzi?

Con crediti in sofferenza che diminuiscono a un ritmo da tartaruga, nonostante Atlante e altri eroi della titanomachia nazionale, corsi del debito pubblico in diminuzione sarebbero la pietra tombale di banche già rese fragili da anni di recessione. In situazioni difficili, e crediamo che la presente lo sia, fosse solo per il fatto che una crescita dello 0.8% nel 2015 è una breve luce dopo anni di veri e propri bagni di sangue, per le imprese e i lavoratori, le persone responsabili cercano di non strafare e di focalizzarsi sulle priorità.

Lanciarsi nella politica economica della manna per tutti, delle promesse che difficilmente potranno essere attese, potrà anche far vincere elezioni e consolidare un sistema di potere per gli anni a venire. Ma attenzione: in economia, così come nella vita reale, i miracoli hanno bisogno della fede. Chi ne è sprovvisto, non può che lanciare avvertimenti razionali e sensati, per quanto inutili a cambiare ciò che pare sempre più come un copione già visto, in un’Italia di smemorati.

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