Succede anche con certi parenti, a mano a mano che gli anni passano. Sulle prime fai finta di nulla, poi sei sconcertato. A furia di ripetere «sono fasi» la malinconia ti scava dentro come un esercito di tarli. Poi arriva l’istante in cui devi ammettere con te stesso, e con il mondo, che al nonno non si può più fare tenere nemmeno il tombolone. E’ quello che tutti pensiamo, ma non vogliamo dircelo, del tramonto di Robert De Niro.
Non sono tanto le comparsate in tv, come quella duplice ad Amici: da Maria ci sono passati in tanti, Harrison Ford si è pure appisolato con il filo di bavina laterale, e anche se Robert è stato simpatico come il trapano dal dentista, pazienza. E’ che da un mito che ha interpretato Il cacciatore, Mean Street, Heat, Novecento, che è stato candidato a sette Oscar vincendone due, che metteva in moto nei decenni d’oro più muscoli facciali di Sandra Milo quando gridava «CiroooCirooo», ci si auspicava la stessa grandezza nel rarefarsi, distillarsi, farsi rimpiangere, sparire.
Invece in Bob è scattata un’irredimibile bulimia (di vita? Di fama? Di soldi?) che lo spinge ad apparire in undicimila film al mese, fosse anche per una manciata di pose. Lo spaventoso Travis Bickle di Taxi Driver, l’immenso Jake LaMotta di Toro scatenato, l’Al Capone de Gli Intoccabili che consegna l’immortale «Sei solo chiacchiere e distintivo», l’attore perfetto che sapeva raggelare la platea con un millimetro di sopracciglio alzato? Ora naufraga tra flutti di smorfie insensate.
Da un mito che ha interpretato Il cacciatore, Mean Street, Heat, Novecento, che è stato candidato a sette Oscar vincendone due ci si auspicava la stessa grandezza nel rarefarsi, distillarsi, farsi rimpiangere, sparire
n Nonno scatenato (nelle sale) che – per dare un’idea- doveva chiamarsi Nonno zozzone, De Niro è il nonno di Zac Efron. Il giorno appresso la morte della moglie diventa un vecchio sfrenato ed ebete che rimorchia ventenni, si fa le canne e si masturba guardando porno, con tentativi di gag verbali e fisiche che al confronto Bombolo era un personaggio di Bergman. Il film, brutto, è talmente insensato da non riuscire nemmeno a lambire un (catartico) trash. Efron, celebre per la graziosa canitudine, inalbera per la durata intera due espressioni, con gli occhiali e senza, ma il problema è che De Niro ne sfodera fin troppe e tutte sbagliate.
Ora, dopo averlo visto in Manuale d’amore 3, in Motel o Stone, ruoli da mestierante medio, o in Il ponte di San Luis Rey (uno dei più imponenti flop della storia del cinema, con un incasso di 50.000 dollari scarsi) la domanda è solo una: perché? La prima risposta è ovvia, e consolatoria: non siamo gli unici ad avere le apnee notturne per il mutuo da estinguere. Bob avrà una decina di mutui, si sa che una villa tira l’altra, tra le bollette e la servitù quanti zeri, signora mia.
E poi ha sei figli. E’ vero, il divo ha 73 anni e alcuni degli eredi sono grandicelli; ma può essere che nell’accettare la parte ne Lo stagista inaspettato (un attempato tirocinante cui non basta la pensione) si sia messo a far due conti. Con quel che pensavamo avesse guadagnato (ha più di 100 film in curriculum) ci eravamo figurati che lo scontrino della lavanderia e le piscine da pulire fossero spese da niente, ma che ne sappiamo noi, della vita sulle colline di Hollywood?
Se non è per soldi, è per bisogno di attenzione. Lasciare all’apice è un’impresa immane, e per un Paul Newman che in vecchiaia sceglie poco e bene, c’è un De Niro che a stare senza set si sente come una top model imbolsita e passatella cui nessuno per strada fischia più dietro. Così non importa cosa, non importa come: regalando l’agra impressione di poter comparire al videocitofono del nostro condominio pur di farsi vedere da un pubblico composto dalla famiglia dell’interno 12. Figurarselo mani in tasca e fischiettante, che bracca la sua agente davanti l’ufficio chiedendo con finta vaghezza: «Niente per me, oggi?», fa precipitare il leggendario carisma dell’uomo a livello di umarell che sorveglia i cantieri.
Lasciare all’apice è un’impresa immane, e per un Paul Newman che in vecchiaia sceglie poco e bene, c’è un De Niro che a stare senza set si sente come una top model imbolsita e passatella cui nessuno per strada fischia più dietro
Ci sono altre possibilità, certo. Ad esempio che un parassita gigante si sia fatto strada nel suo cervello, passando per un orecchio, e lo stia divorando a poco a poco. Che Robert abbia fatto uno sgarro alla mafia che ora lo ricatta costringendolo a versare trilioni di dollari. Che abbia dilapidato il patrimonio puntando su brocchi alle corse o giocando d’azzardo in fumosi sottoscala dall’aria sordida (anzi no, così no: vengono in mente insieme Casinò, che fece con Scorsese, e C’era una volta in America, in cui lo diresse Leone, ed è più di quanto si possa sopportare, oltre al pensiero che non torneranno più i tempi delle merendine).
L’amore è fatto di reciprocità e rispetto: per dire, siamo andati a vedere Ti presento i miei 1 (genere: commedia) e abbiamo riso mentre affrontava il ruolo di Jack Byrnes, capofamiglia ex agente della CIA. Siamo andati a vedere il 2, e abbiamo sorriso. Al 3, una sgangherata ciofeca, si è fatta strada in noi una collettiva urgenza, quella di chiedere con un crowdfunding a Bob di far morire il personaggio: noi lo amiamo, ma lui in cambio cosa ci dà? Uno degli aggettivi che lo accompagna da sempre è: perfezionista. Può essere vero, vedendo quanto maniacalmente si possa distruggere una carriera che pareva invulnerabile.
Ti vedo, Bob, che mi fissi con l’occhio omicida e il muscolo zigomatico contratto, e mi dici: «Stai parlando con me?».
Sì, con te, a cui si attribuisce la frase «Il talento sta nelle scelte». Non farmici pensare, dev’essere un fake.