Milano, nelle giornate di sole, sa essere di una bellezza disarmante.
E mentre ci cammino, in un lunedì di marzo che non ha una nuvola, mi accorgo che assomiglia a un mio personale Luna Park dove ogni cosa profuma di possibilità.
Per una ragazza di provincia pagare una Caesar Salad 15 euro può essere shockante, ma anche superati i 30 anni, in un’età in cui molto è già deciso e le vie già tracciate, Milano mi regala la speranza che tutto può ancora essere fatto e ricostruito. Milano è il mio Erasmus.
Mentre cammino dalle parti di Porta Venezia abbandono il pensiero della Caesar Salad pagata 15 euro e inizio a pensare a cosa significa essere donna oggi. Ho 33 anni, e continuare a giudicarmi una ragazza ha un che di patetico. Mi mantengo, pago le bollette, gli studenti mi danno del Lei sull’autobus, le mie amiche si sposano e fanno figli. Sono grande, ma lo sono senza essermene troppo accorta, distrattamente, così come distrattamente faccio molte cose.
Sono nata e cresciuta in un’epoca che mi sembrava, se non la migliore in assoluto, quella che più mi avrebbe permesso di fare quello che desideravo. Ho sempre pensato di essere una donna privilegiata. Ho spesso pensato, in modo molto superficiale, di non dover lottare per praticamente più niente che riguardasse le donne. Sentivo di avere le stesse opportunità che potevano avere gli uomini, trovavo ogni appunto contrario a questo concetto come una presa di posizione stantìa e impregnata di polemica sterile.
Trovavo – in parte trovo ancora – certi attuali atteggiamenti diffusi piuttosto stucchevoli.
Per esempio ritengo che le quote rosa siano una cosa aberrante, perché dimostrano che abbiamo bisogno dell’aiutino per essere prese in considerazione come gli uomini. E quando leggo che non ci sono donne nei dieci libri dell’anno della Lettura del Corriere della Sera sul momento non faccio un plissé, perché dentro, forse ingenuamente, non ci leggo né l’inferiorità muliebre né una discriminazione da parte dei votanti nei confronti delle donne in quanto donne, ma solo una questione di gusti che riguardano la scrittura in sé, e non il genere sessuale di chi quelle storie le ha scritte. È indubbiamente un discorso lungo, che dovrebbe chiamare in causa molte variabili (il numero dei votanti, il numero delle donne votanti, il motivo della presenza di così poche donne tra le collaboratrici della Lettura), e cosa grave difficilmente ne usciremmo con una risposta che potremmo giudicare definitiva o che chiude l’argomento zittendo tutti. E nel frattempo, da dicembre ad oggi, ho anche cambiato opinione, su questo tema e su diverse altre cose. Servirebbe un articolo solo su questo, sebbene moltissimo sia già stato scritto, non lasciando, vado a memoria, nessuna opinione talmente incisiva da rimanere nel tempo.
E quando leggo che non ci sono donne nei dieci libri dell’anno della Lettura del Corriere della Sera sul momento non faccio un plissé, perché dentro, forse ingenuamente, non ci leggo né l’inferiorità muliebre né una discriminazione da parte dei votanti nei confronti delle donne in quanto donne, ma solo una questione di gusti che riguardano la scrittura in sé, e non il genere sessuale di chi quelle storie le ha scritte.
Necessità di riflettere su cosa significa essere donna oggi, dicevo. Ma anche bisogno di capire quanto incida la mia assuefazione ad essere trattata effettivamente o falsamente alla pari, e anche una certa mia ignoranza e incapacità di alzare lo sguardo. E gli alberi si stanno preparando a fiorire.
Ricordo che una volta ho ascoltato un’intervista fatta a una scrittrice, che parlando di un racconto aveva detto: “Credo che il mio racconto non sembri assolutamente scritto da una donna”. Io quel racconto lo avevo letto e avevo pensato: “Sembra proprio scritto da una donna”. La differenza è che lei ne parlava come se questo fosse un limite mentre io ci vedevo dentro un valore aggiunto.
Quand’è successo (o meglio: succederà mai) che anziché vederci come una risorsa ci siamo viste come una minoranza il cui nome è già ontologicamente discriminante?
Assodata cioè la presa di coscienza, le battaglie, i traguardi, e assodato anche che molto ancora c’è ancora da fare, quando riusciremo a non sentirci più, noi in primis e coi noi stesse, qualcosa che cova in sé un limite?
Ecco. Poi succede che ogni tanto arrivano libri, articoli, persone, che cambiano il tuo (mio) modo di vedere le cose. Che ribaltano totalmente certe opinioni radicate, certe opinioni ataviche. Ma anche, semplicemente, argomenti che senza ribaltare nulla pongono dubbi, scuotono le fondamenta, insinuano domande. E in un’epoca in cui tutti provano ad avere ragione e sentenziare verità a cui non è più dato rispondere, ben vengano dubbi, domande, turbamenti.
Anche su questo ci sarebbe da scrivere un intero saggio a parte. Per ora basti sapere che sul treno regionale che attraversa il nord dell’Emilia Romagna e mi deposita a Milano leggo un articolo dell’Atlantic che mi ha mandato la mia amica Cecilia.
È un articolo illuminante e basa le fondamenta del discorso parlando della (poca) fiducia che le donne hanno in se stesse, nelle proprie potenzialità e nelle proprie capacità. Spiega, tirando in ballo esperimenti, nomi di università e professori, come diversi studi abbiano dimostrato che, accanto alle competenze, per avere successo serve una dose non indifferente di fiducia nei propri mezzi. Attenzione, non di ostentazione. Credere per davvero di essere brave, di meritare un posto di lavoro, di poter fare un test al massimo, di essere capaci di scrivere un buon articolo. E sembra che questa tensione alla perfezione, questo eterno grumo che ostruisce e rende difficoltosa la riuscita, sia tipica delle donne.
Nemmeno a dirlo, i risultati tra i due sessi nei test effettuati sono pressoché identici, quello che invece cambia è la propensione di rischiare, l’alta percezione delle proprie capacità e la certezza di essere in gamba e poter riuscire in ogni cosa. Le donne non pensano di meritarsi uno stipendio alto, non credono di essere all’altezza di un posto di lavoro ai vertici di un’azienda, non rispondono alle domande di un test se non sono assolutamente certe di sapere la risposta.
Finito l’articolo mi sono ammutolita.
Le donne non pensano di meritarsi uno stipendio alto, non credono di essere all’altezza di un posto di lavoro ai vertici di un’azienda, non rispondono alle domande di un test se non sono assolutamente certe di sapere la risposta.
Quante volte ho fatto leggere un mio pezzo agli amici (quasi sempre maschi, quasi sempre più in gamba di me – secondo la mia percezione femminile di bassa autostima) – sfinendoli, letteralmente, su cose che forse non funzionavano, forse non erano abbastanza? Quante volte ha vinto l’inazione al provarci, la sfiducia alla consapevolezza, la paura di fallire al desiderio di rischiare?