Ad un certo punto della storia, l’Italia si è svegliata più cupa. Non più triste, semplicemente più cupa. Come fosse calata una cappa sul paese. La metà degli anni ’70. La sbornia del miracolo economico andava svanendo, lasciando al suo posto un’Italia, almeno da nord a centro, certamente più industrializzata e moderna, ma anche più fredda e tentacolare. Oltre l’Atlantico e Oltremanica andava esplodendo la sottocultura punk. John Lydon, prima di diventare Johnny Rotten, se ne andava in giro con una t-shirt con scritto a penna “Odio i Pink Floyd”, e pochi anni più tardi Derby Crash dei The Germs si suicidava a 22 anni. Da noi quella pulsione iconoclasta, quel senso di inadeguatezza ai “tempi moderni”, veniva sublimato nell’impegno politico. Possibilmente extraparlamentare. Possibilmente eversivo.
Così da noi il punk propriamente detto, con tutto il suo carrozzone di personaggi e musica, si stabilizzerà solo dopo la soglia degli ’80; con la Bologna “laida” dei Nabat e dei primi gruppi di giovani che si autoappellavano come “nichilisti”, ad esempio. Ma prima ancora, c’era la Bologna del Movimento. È in questo frammento di storia che cresce Andrea Pazienza, il quale si prese la briga di mettere in immagini e nuvole quell’inquietudine e quello smarrimento. Paz nasce a San Benedetto del Tronto nel 1956. A Bologna ci arriva a 18 anni per frequentare il Dams, che all’epoca era un esperimento unico da cui passò praticamente buona parte dell’avanguardia italiana che aveva qualcosa da dire e che avrebbe avuto qualcosa da dire fino agli inizi degli anni ’90.
L’idea del Dams fu del grecista Benedetto Marzullo, che coinvolse poi nel progetto Umberto Eco. Tra gli insegnanti di allora si potevano trovare nomi come Luciano Anceschi, Gianni Celati, Ugo Volli. Tra gli allievi, per dire, Pier Vittorio Tondelli e Roberto Freak Antoni: personaggi, questi ultimi due, che non rientrano solo tra le sue prime frequentazioni nel capoluogo emiliano, ma che furono dei compagni di immaginario.
Da noi il punk, con tutto il suo carrozzone di personaggi e musica, si stabilizzerà solo dopo la soglia degli ’80; con la Bologna “laida” dei Nabat e dei primi gruppi di giovani che si autoappellavano come “nichilisti”. Ma prima ancora, c’era la Bologna del Movimento. È in questo frammento di storia che cresce Andrea Pazienza
Ed è come se Pompeo (Gli ultimi giorni di Pompeo), percorrendo avanti e indietro la Via Emilia in cerca dell’eroina o di una dose di Dividol, non faccia altro che seguire le ombre degli “altri libertini” di Tondelli. Come se la Via Emilia fosse una retta in cui al posto di macchine e pedoni camminassero idee e immagini. Di lì a poco cominciano le pubblicazioni sulle riviste che segneranno la controcultura di quegli anni. Nel 1977 esce su Alter Alter Le straordinarie avventure di Pentothal. Prende corpo quell’Emilia Paranoica cantata da Ferretti con i CCCP otto anni più tardi, con le storie allucinate e surreali di Pentothal, alter-ego dell’autore, che si aggira presente-assente tra agguati fascisti, camionette della polizia e il senso di oppressione della Bolo di piombo.
Nella vita universitaria della città, così militante, nell’Italia della P2, dell’Operazione Gladio, di Cossiga, Pentothal ci passa attraverso come un fantasma, spesso in maniera orizzontale, cioè steso sul letto, con le tavole irregolari che passano dalla realtà feroce al sogno. Come se già dal ’77 Pazienza volesse addormentarsi e non svegliarsi più, con la dimensione onirica che sconfina nel quotidiano del protagonista, come se tutta la realtà stesse sempre sul punto di implodere (cosa che, per certi versi, accadrà in Pompeo). Di quegli anni sono poi le frequentazioni con Filippo Scòzzari e Vincenzo Sparagna. Insieme al primo darà vita alla rivista Cannibale (1977) e, con l’aggiunta del secondo, insieme ai nomi di Stefano Tamburini e Tanino Liberatore, vedrà la luce il mensile Frigidaire (1980). Qui nasce l’altro grande personaggio di Paz: Zanardi.
https://www.youtube.com/embed/mmrb4RK2_dE/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-ITZanna, naso tagliente e maligno, è lo specchio oscuro di Pazienza. Il suo doppio inconfessabile, con cui arriverà persino allo scontro fisico in Zanardi. La prima delle tre. Cattivo, privo di qualsiasi morale, cinico e violento. Zanardi è Pentothal dopo la contestazione studentesca, quando si è esaurita ed è rimasto solo un grande vuoto. Zanardi è il fondo abissale di un’intera generazione refrattaria alla militanza politica, che ad un certo punto si è sentita tagliata fuori dalla società (e perfino dall’annessa contro-società) che si andava trasformando. Da questo impatto ne è uscita fuori alienata e annoiata. Ma, a differenza dei giovani californiani figli di papà di Bret Easton Ellis, è rimasta sostanzialmente proletaria e condannata a girovagare per giungle urbane in cerca di una pulsione di vita più o meno violenta.
«La caratteristica di Zanardi – dice Pazienza – è il vuoto. L’assoluto vuoto che permea ogni azione». In questo senso sì: Pazienza, i testi degli Skiantos, le riviste come Frigidaire, furono in Italia il punk prima del punk. Che ai tagli autoinflitti e alle spille da balia ha preferito un’ironia disperata e paradossale, in fondo tipicamente italica. E la droga. È in quell’alba di una controcultura nostrana (e immediato tramonto calato con la fine di quelle riviste di culto) che i temi della sessualità vengono fatti emergere senza filtri per la prima volta. Prima degli amori tossici di un Caligari e della riflessione postuma sulla tragedia dell’AIDS che aveva colpito gli ’80.
A questo proposito è emblematico Gli ultimi giorni di Pompeo, libro-testamento pubblicato nel 1987, un anno prima della morte di Pazienza. Un diario (con gran parte delle tavole costituite proprio dalla carta quadrettata originale che Pazienza chiese all’editore di non modificare) che testimonia gli ultimi giorni di vita dell’insegnante di fumetto Pompeo. Pentothal comincia le sue avventure destandosi da un sogno, Pompeo, «la storia più importante che abbia mai fatto», finendo in un incubo. Un girone infernale dove, più che il testo, regnano i flussi di coscienza e le immagini che ossessionano Pompeo nel suo andirivieni nevrotico nella città.
Un magma narrativo che oscilla tra linearità e caos a seconda dello stato d’animo del protagonista. La forma linguistico-narrativa di Pazienza era una bomba ad orologeria. Esplosiva e istintiva. E come tutto ciò che è istintivo, era fuori da canoni stilistici e narrativi. Un’anarchia del linguaggio piegata alle esigenze emotive degli episodi descritti nelle tavole. La parola-immagine come una bomba, quindi, sulle orme di Majakovskij, totem ben presente e citato nelle opere di Paz, che dichiarava con la mente rivolta a Osip Brik e alla rivista LEF: «Vogliamo che la parola esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria!».
Viene da chiedersi cosa rimane oggi di lui; perché va pure detto che ormai di Pazienza in giro se ne fa per lo più un’agiografia, che rischia di diventare quella retorica del genio che persiste ancora adesso per un Pasolini. Il modo migliore per decontestualizzarli e quindi ucciderli
Pazienza divenne presto una specie di rockstar, arrivando a collaborare fuori dal circuito underground, con la pubblicità e con un certo mondo mainstream: o come nel 1981 quando realizzò la locandina de La città delle donne di Fellini. Venerato e idolatrato da quelli che divennero poi la nuova generazione di fumettisti-fumettari. E ancora oggi nume tutelare nelle nuove generazioni di lettori. Ogni tanto se ne parla di meno, quasi sparisce, poi ritorna. Da qualche settimana è stato messo online il sito ufficiale dove dovrebbero essere inserite tutte le informazioni riguardanti vita e opere. Una base importante per chi volesse studiarne il percorso artistico. Meglio tardi che mai, ormai i fumetti hanno una loro dignità letteraria e vengono candidati ai premi letterari (che poi non è detto sia una cosa positiva, quella dei premi, ma questo è un altro discorso).
Inoltre, a Rimini, nell’ambito della seconda Biennale di Disegno, fino al 10 luglio, c’è una mostra curata da Egistio Quinti Seriacopi e Marina Comandini, che poi sarebbe la donna che Pazienza sposò nel 1986, due anni prima di morire. E allora viene da chiedersi cosa rimane oggi di lui; perché va pure detto che ormai di Pazienza in giro se ne fa per lo più un’agiografia, che rischia di diventare quella retorica del genio che persiste ancora adesso per un Pasolini. Il modo migliore per decontestualizzarli e quindi ucciderli. Mica perché genio non lo fosse(ro). Però ad esempio bisognerebbe chiedersi cosa passa oggi delle sue opere nei nuovissimi lettori e cosa viene invece trattenuto dalla distanza siderale che intercorre tra il mondo della generazione di Paz – e magari quella subito dopo – e quello dei ventenni odierni.
D’altronde, quelle storie non erano solo fortemente immerse nelle atmosfere del tempo, ma la straripante eterogeneità narrativa e linguistica è infarcita di rimandi ai tormentoni dell’epoca, alle pubblicità, ai modi di dire, ai tic nazionali e di provincia, alla musica. Un giorno forse delle sue opere se ne farà un commentario, per non relegarlo a un santino da buttare in pasto al mercato editoriale. Bisogna poi chiedersi cosa è cambiato, se le paranoie e il senso di oppressione dei giovani è lo stesso di allora; se le dinamiche di vita, almeno nella loro impronta di fondo, sono le stesse solo riaggiornate ai nuovi conflitti; e concludere, forse, che il “vuoto” di Zanardi è presente oggi più che mai.
Il 23 maggio Andrea Pazienza avrebbe fatto 60 anni. Pompeo, dopo il finale che sembra il compimento terribile di un percorso iniziato 10 anni prima, si conclude con una postilla che comincia così: «Cari Voi che mi avete seguito fin qui. Così finisce l’ultima puntata di Pompeo e, presumo, anche un lungo capitolo della mia vita. Questi s’era aperto “fumettisticamente” nel ’77 con Pentothal (del quale Pompeo è, forse, l’alter-ego invecchiato), e, tra alti e bassi, chiude adesso nove anni dopo».