Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi in Sicilia, ha capito subito perché la notte del 16 maggio gli hanno sparato mentre viaggiava sulla sua auto di scorta. «Abbiamo bloccato il business di terreni demaniali ottenuti dai mafiosi in concessione da amministratori corrotti o impauriti a 30 euro per ettaro anziché 3mila, per accaparrarsi dall’Europa fondi da 500mila euro cadauno per colture biologiche mai impiantate», ha detto. Un business che si era ormai radicato nel parco siciliano: bastava prendere in affitto porzioni di terreno, e usarle per prelevare fiumi di denaro al grande bancomat dei fondi Ue per l’agricoltura. Poi nel 2013 è arrivato Antoci, che ha cominciato a cambiare le regole del gioco. Guastando la festa a molti.
Tra il 2007 e il 2013 solo in Sicilia sono arrivati circa 5 miliardi di euro di fondi comunitari per lo sviluppo agricolo. Un tesoretto che fa gola alla criminalità. Tanto che su 200 milioni di euro da recuperare per le frodi in agricoltura, la metà si troverebbero sull’isola. Soldi che nella maggior parte dei casi non si vedranno mai più, perché le frodi vanno avanti da anni e i reati finiscono nel dimenticatoio della prescrizione.
Il Parco dei Nebrodi, la più grande area protetta siciliana (distesa su 24 comuni tra la provincia di Messina, Catania ed Enna), è stato usato dai boss locali come una miniera per fare affari. Con il pascolo abusivo, i furti di bestiame e macchinari agricoli, ma soprattutto tramite le frodi per ottenere i finanziamenti europei. Un polmone verde che la mafia ha sfruttato secondo i propri interessi, tenendo lontano anche il turismo.
Quando Antoci nel 2013 arriva alla presidenza del parco, nominato da Rosario Crocetta, fa una cosa che non si era mai vista prima: controlla a chi sono stati affidati i terreni. Viene fuori che a gestire quelle enormi distese, che fruttano milioni di euro di aiuti europei, è il solito gruppetto di famiglie mafiose della zona. Una mafia spietata e sanguinaria, quella dei Nebrodi, che non si fa problemi a sparare, come si vede dall’agguato a Giuseppe Antoci. Che in questi anni ha rivoltato come un calzino le logiche di gestione del parco. Partendo da un protocollo di legalità per contrastare le infiltrazioni mafiose nelle procedure di concessione ai privati dei terreni del parco, sottoscritto con i comuni e il prefetto di Messina. Il primo requisito richiesto a tutte le aziende che chiedono di gestire i terreni è tanto banale quanto dirompente: la certificazione antimafia. Il certificato finora era obbligatorio solo per contributi superiori ai 150mila euro. Tutto quello che restava sotto questa soglia, sfuggiva ai controlli di legalità. Per cui bastava frammentare l’estensione dei terreni per restare sotto la soglia e il gioco era fatto. Il protocollo firmato da Antoci rompe questo meccanismo e chiede la certificazione anche sotto i 150mila euro. Così sono state revocate diverse concessioni. Con tanto di conferma del Tar: su 25 richieste, 24 non hanno superato la soglia dell’antimafia.
Tra il 2007 e il 2013 solo in Sicilia sono arrivati circa 5 miliardi di euro di fondi comunitari per lo sviluppo agricolo. Un tesoretto che fa gola alla criminalità. Tanto che su 200 milioni di euro da recuperare per le frodi in agricoltura, la metà si troverebbero sull’isola
Nel dicembre 2014 Antoci aveva già ricevuto una lettera anonima in cui veniva minacciato di morte insieme al presidente della Regione Sicilia: «Ne avete per poco tu e Crocetta. Morirete scannati», c’era scritto. Sei mesi dopo, una molotov viene inviata nella sede distaccata del parco, a Cesarò, con un biglietto: «Ve ne dovete andare». Dalle parole scritte, si passa ai proiettili. Prima quelli inviati a scopo intimidatorio, a novembre. Poi quelli sparati nella sera del 16 maggio. Antoci stava tornando a casa da una manifestazione a Cesarò. Ad aspettarlo lungo la strada statale c’era un commando armato che aveva piazzato grandi sassi sulla carreggiata per costringere l’auto a fermarsi. E così è andata: l’auto ha rallentato, i malviventi hanno cominciato a sparare, ma la scorta e i poliziotti che seguivano l’auto hanno risposto, riuscendo a mettere in fuga gli assalitori. Antoci ha individuato subito i responsabili. «Sono stati i mafiosi dei Nebrodi, ma anche della ‘ndrangheta, perché il protocollo che abbiamo messo in atto qui in Sicilia sarà applicato in Calabria», ha detto.
«Quello delle frodi ai fondi europei per l’agricoltura è un fenomeno che riguarda tutta la Sicilia», spiega Diego Gandolfo, autore con Alessandro Di Nunzio dell’inchiesta “Fondi rubati all’agricoltura”, vincitrice del premio Roberto Morrione 2015. «E appena si mette mano alla gestione delle terre, si colpiscono gli interessi della criminalità».
Non a caso, sotto scorta per le minacce ricevute dalla mafia è finito anche Fabio Venezia, sindaco di Troina, comune in provincia di Enna entrato a far parte del parco dei Nebrodi dal 2005. Insieme ad Antoci, il 34 enne primo cittadino in questo momento è la figura più impegnata in Sicilia nella lotta al business delle terre in mano alla mafia. Venezia non ha fatto altro che indire una gara per la concessione di oltre 4mila ettari di terreni comunali, finora in mano ad aziende che né avevano vinto alcun bando né avevano mai presentato le necessarie certificazioni antimafia. Quando le gare sono state indette, il tappo è saltato. Né è bastato il ricorso al Tar da parte degli imprenditori. Il sindaco di Troina ha anche licenziato alcuni dei dipendenti coinvolti nella gestione delle terre e ha accompagnato diversi agricoltori in questura per denunciare le estorsioni. Le minacce, non si sono fatte aspettare. D’altronde uno dei primi amministratori uccisi dalla mafia, nel 1992, era stato Palmiro Calogero Calaciura, sindaco di Cesarò, che si era messo di traverso proprio nelle modalità di assegnazione dei terreni pubblici in mano alla Regione.
Le uniche due figure che in Sicilia stanno contrastando il business delle terre sono finite sotto scorta: Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi, e Fabio Venezia, sindaco di Troina
A distanza di più di vent’anni da quell’omicidio, la mafia continua a fare affari con le terre. Frodando l’Unione europea. I fondi comunitari destinati all’agricoltura possono essere diretti, cioè distribuiti tramite la Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) come sostegno al reddito degli agricoltori. O indiretti, tramite i Piani di sviluppo rurale, cofinanziati dell’Europa per precisi interventi agricoli. «I fondi ottenuti crescono sia in base all’estensione dei terreni, nel caso di quelli diretti; sia, per quelli indiretti, in base ad alcune misure specifiche come la presenza di coltivazioni biologiche, la conversione in pascoli permanenti, l’interessamento di zone svantaggiate», spiega Diego Gandolfo. Tutte queste variabili sono cumulabili e possono portare a incassare anche fino a 1.000/1.500 euro a ettaro. Un terreno di mille ettari arriva a fruttare quasi un milione di euro annui.
Tanto che si fanno anche carte false per attestare la proprietà dei terreni e accedere ai fondi. Tramite estorsioni ai danni degli agricoltori e finti contratti, si mettono insieme centinaia di ettari di terre per accaparrarsi i contributi europei. Senza mai fare un solco nel terreno.