È il 4 dicembre del 2006. Durante la trasmissione di una puntata di Your World Today, sulla CNN, una trasmissione di informazione globale. Dopo qualche minuto dedicato a parlare di stadi, hooligans e violenze, la corrispondente Rosemary Church introduce l’argomento successivo: «an underground artist who is truly underground». L’anchor Stephen Frazer incalza: «His name is Banksy. He is the hottest thing on the London art scene». Poi vanno in pubblicità.
È dopo quello stacco che la storia di Banksy accelera, almeno mediaticamente. Stephen Frazer, infatti, appena ripresa la parola dopo la pausa commerciale, dice una formula magica: «In London, they’re calling it the Banksy effect, and the graffiti artist there behind it has become an art world phenomenon». L’effetto Banksy è partito. Star di Hollywood come Brad Pitt e Angelina Jolie si aggiudicano suoi lavori. I suoi pezzi decuplicano in valore, ma resta ancora misteriosa l’identità del graffitaro.
«Banksy ama la pizza, malgrado le sue preferenza non possano essere definitivamente verificate». Inizia così, con un abbrivio sarcastico, un articolo pubblicato dal New Yorker il 14 maggio del 2007 e dedicato proprio al misterioso artista di strada. È uno dei primi articoli importanti dedicati al fenomeno Banksy.
L’articolo continua, accumulando alcuni dei contraddittori dettagli emersi nei mesi per descriverlo: «Ha un dente d’oro. Ha un dente d’argento. Ha un orecchino d’argento. È un ambientalista anarchico che viaggia scarrozzato in SUV. È nato nel 1978. O nel 1974. A Bristol, in Inghilterra – no, anzi, a Yate. È il figlio di un macellaio e di una casalinga; o di un fattorino e un’infermiera. È grasso, è magro. È uno stakanovista solitario; è un esibizionista fanfarone che si beve una pinta di stout dopo l’altra.» Non certo un ritratto preciso. Difficile descrivere una persona che non esiste.
Banksy non è mai stato fotografato. Non ha mai rilasciato un’intervista, né vis-à-vis né telefonica, solo via mail. Qualcuno a un certo punto ha sostenuto che fosse una donna; un discreto numero di commissari di polizia hanno affermato di averlo arrestato e chissà quanti, negli anni, si saranno autodenunciati come Banksy alle autorità di mezzo mondo. Qualcuno pare lo abbia visto, ma pare è un verbo debole e le testimonianze in questione, benché interessanti i primi cinque minuti, si perdono nelle voci di strada.
Per anni, diverse teorie sulla sua identità, si sono accavallate e sostituite. La più accreditata è quella che afferma che sulla sua carta d’identità ci sia il nome di un tal Robin Gunningham, “according to academic research”. Le ricerche sono state quelle di geolocalizzazione e di confronto tra le opere di Banksy e gli spostamenti di Gunningham. Un nome che era già uscito nel 2008. Qualcuno ci potrà anche credere. Ma in fondo è come credere che papa Bergoglio e l’High Sparrow di Game of Thrones sono la stessa persona perché nessuno li ha mai visti insieme.
L’unica verità è che sono passati vent’anni da quando i suoi primi disegni apparivano sui muri e sui treni di Bristol. E che nessun anonimato è mai stato così ferreo, né è mai durato così tanto, né in campo criminale, né in quello artistico. Certo, diverse volte è stato annunciata la cattura di Banksy, ma si è sempre trattato di bufale, annunci senza alcun fondamento di verità. E il motivo è molto più semplice di quanto possa pensare l’Interpol: Banksy non esiste, quanto meno non esiste come individuo.
Banksy non è un uomo, né una donna. Non è né un fantasma né un supereroe, né tantomeno un alieno. Banksy è semplicemente un gruppo di persone, tendenzialmente vien da pensare a un collettivo, vista la cifra politica e critica dei suoi lavori — ma potrebbe essere benissimo un’organizzazione, anzi, ormai, a giudicare dagli sforzi produttivi necessari per organizzare una cosa come Dismaland — il parco distopico anti Disneyland — potrebbe essere un’industria vera e propria. Banksy non esiste. La prova, oltre che nella resistenza statistica agli arresti — è nello stile.
Quello che ha scelto Banksy è uno stile particolare, basato su stencil e elaborazioni grafiche al computer, e ha due grandi caratteristiche: permette di essere fatto da chiunque sappia usare gli strumenti del mestiere, ed è veloce, molto veloce da fare, evitando così la possibilità di essere colti in flagrante. È uno stile assolutamente propedeutico sia al messaggio che alle convenienze specifiche di Banksy: velocità e facilità di esecuzione. Chiunque con un minimo di addestramento li può fare, ci mette poco e poi sparisce nel nulla. Per fare altri esempi del settore, pensate a BLU, per esempio, il cui stile, riconoscibilissimo, è però opposto a quello di Banksy. È un tratto artistico, basta quello a rendere impossibile il fatto che le sue opere siano fatte da altri. D’altronde, la convenienza specifica di Blu è fare arte; quella di Banksy è fare politica, o fare soldi.
Certo, è possibile che il Banksy dei primi anni Novanta, quello che ha iniziato a fare le sue apparizioni a Bristol, fosse uno. Ma dietro opere monumentali e di rara complessità organizzativa come il mockumetary Exit Through the Gift Shop, o come la già citata Dismaland, o ancora, come l’operazione Better Out Than In, quando Banksy dichiarò di lavorare a New York per un mese intero — operazioni non solo molto costose, ma che necessitano anche un lavoro organizzativo e produttivo immenso, senza contare i rischi di essere identificati — è veramente difficile pensare che ci sia una persona sola, ancorché geniale. Banksy non è nessuno. O sono tutti. Non c’è differenza. In entrambi i casi non lo fermeranno mai.