Da spacciatore ad attore, la favola, vera e anticamorra, di Sasà Striano

L'autobiografia di Striano, che in carcere ha scoperto il teatro: «Non capivo cosa fosse un attore ma sul palco sento di potermi fare perdonare»

Salvatore Striano, detto Sasà, a 15 anni tra incoscienza e ignoranza appartiene alla camorra: vuole fare l’eroe di strada, da scugnizzo si trasforma in guappo e spaccia cocaina nei quartieri spagnoli a Napoli. «Volevo difendere la mia famiglia dal quartiere». Oggi ha 43 anni e fa l’attore con i fratelli Taviani, con Matteo Garrone. Tra ieri e oggi c’è una grande esperienza che gli ha cambiato la vita: 10 anni di carcere tra Madrid e Rebibbia. Sono gli anni in cui scopre il teatro. Sasà è un uomo a cui la camorra ha negato l’adolescenza, ma gliel’hanno restituita con gli interessi il carcere e il teatro. «Non capivo che cosa fosse un attore ma sul palco mi sentivo di potermi fare perdonare, sentivo di crescere». La tempesta di Sasà (Chiarelettere 16 euro) è la sua autobiografia. Il riferimento è la Tempesta di Shakespeare.

Sasà si avvicina alla lettere quando è in carcere, con gli occhi di un bambino che per la prima volta vede la primavera. Sasà non legge i libri: Sasà diventa i libri. Recita le storie. Fa del carcere la sua Torre di Babele: un luogo chiuso dove c’è la vita nei libri. «Le metafore ti aprono la mente», scrive. Legge la Divina Commedia ed è Dante. Non gli piace: «Ci distrugge, ci brucia, ci taglia a pezzettini. Ci presenta il conto».

Salvatore Striano, detto Sasà, a 15 anni tra incoscienza e ignoranza appartiene alla camorra: vuole fare l’eroe di strada, da scugnizzo si trasforma in guappo e spaccia cocaina nei quartieri spagnoli a Napoli. «Volevo difendere la mia famiglia dal quartiere»

Shakespeare e Eduardo De Filippo sono più laici, più umani. «Il teatro serve a confrontarci con i sentimenti». E attraverso l’interpretazione di Donna Amalia di Napoli milionaria, Sasà elabora il lutto e il senso di colpa per avere lasciato la madre sola a morire. Interpreta Ariel, lo spirito del vento ne La Tempesta di Shakespeare, e vede in Prospero il padre morto di infarto il giorno della sua cattura. Con la recitazione Sasà si riconcilia con chi lo ha creato: genitori onesti, lavoratori. Così come Prospero ha dato la vita ad Ariel, liberandolo da un albero, Sasà ridà vita al padre Prospero: questa volta accettandola come figura guida, e rinnegando il passato da camorrista.

Colpisce il personaggio di don Pasquale, un carcerato condannato all’ergastolo che diventa un padre spirituale. Per noi che siamo cattolici di cultura, è impossibile non notare l’omonimia tra il “don” del prete e il “don” l’appellativo ossequioso del sud, ellittico del latino dominus. Striano chiarisce: «Io sono amico di Gesù Cristo, ma non sono cattolico. Per la mia esperienza i preti sono persone prive di amore che non aiutano. Giocolieri di anime, dei repressi». Ma don Pasquale è un ergastolano, ha ucciso un uomo: può diventare un padre? «Si è pentito, sconta la pena. Va perdonato. Nella camorra come salvacondotto per la coscienza diciamo che il cane-mangiacane, e lui stesso nel libro si definisce un fallito».

A proposito di padri e figli, ci sono anche quelli sbagliati nella nostra attualità. Come Totò Riina junior e senior: «Il padre ha fatto male anche creando. C’è chi uccide con le armi, Salvatore Riina uccide con la penna», e si riferisce al libro pubblicato di recente, in cui racconta l’infanzia come figlio della mente dietro la strage di Capaci. Striano dà alla penna un ruolo educativo, quello di cui lui stesso ha avuto esperienza. Per questa ragione non ama nemmeno Saviano: «Esalta il male con la scusa di denunciarlo. Vicino al veleno non mette la medicina. Ha fatto pubblicità ai Casalesi. E’ una macchina commerciale». E specifica: «Nonostante questo, meglio 1000 Saviano e non i personaggi che lui stesso cita».

Su Saviano: «Esalta il male con la scusa di denunciarlo. Vicino al veleno non mette la medicina. Ha fatto pubblicità ai Casalesi. E’ una macchina commerciale. Nonostante questo, meglio 1000 Saviano e non i personaggi che lui stesso cita»

Ma per un Salvatore Striano, rieducato con il carcere, ci sono mille altri Massimo Carminati (da lui citato nel libro) che anche in carcere continuano a delinquere. «Nel carcere italiano il detenuto è lasciato solo e privato degli affetti. L’animo è incattivito». (Nel carcere spagnolo Striano aveva diritto a incontri intimi con la moglie una volta al mese).

C’è una categoria estetica che appartiene all’eloquio di Striano, ed è l’esattezza. Nella biografia il percorso è così meraviglioso, così positivo, così pieno di buoni sentimenti, che se fosse falso risulterebbe stucchevole. Ma è vero, e le parole scritte lo imitano. Poche parole, pregnanti, anche mentre parla, del tutto in contrasto con l’eloquio barocco meridionale, figlio dei quartieri alti. In quell’ “animo incattivito” c’è il senso della detenzione negativa. Se si sbaglia, l’animo del detenuto è un deserto. Questi prende psicofarmaci, non immagina, non ci sono torri di Babele a salvarne la fantasia. Puoi imprigionare il corpo, ma l’animo deve continuare a crescere, deve essere libero: o nulla ha senso. Non ci sarà evoluzione, pentimento: c’è la morte. L’animo non può essere captivus, ovvero prigioniero. E’ una parola scelta così bene che racchiude il senso del suo percorso. Glielo dico. «Mi fa piacere che l’avete notato», risponde.

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