I flussi migratori provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa costituiscono ormai in tutta evidenza una sfida cruciale per la sopravvivenza del processo d’integrazione: un fallimento su questo fronte comporterebbe infatti una parziale rinuncia alla libera circolazione delle persone, uno dei pilastri fondamentali intorno al quale il progetto politico europeo si è storicamente sviluppato; il problema è di difficile soluzione, poiché implica un’analisi multilivello che consideri contemporaneamente i diversi aspetti della questione. Il valore etico e simbolico della vicenda consiglierebbe innanzitutto un approccio unitario votato all’accoglienza e alla solidarietà da parte degli Stati europei: la vicenda riguarda ormai l’identità stessa dell’Unione e chiama in causa una risposta politica complessiva, che vada oltre l’arida analisi costi/benefici spesso propugnata dalle istituzioni europee e la distinzione spesso strumentale tra rifugiati – aventi diritto d’asilo – e migranti economici.
D’altro canto, una sana dose di realismo imporrebbe la consapevolezza dei contrasti tra le diverse capitali europee in un contesto economico non certo favorevole: da questo punto di vista è fondamentale che la discussione politica si concentri su un’analisi approfondita dei dati relativi al fenomeno migratorio, anche al fine di decostruire la metafora dell’invasione troppo spesso veicolata dai mezzi d’informazione, in particolare in occasione delle elezioni politiche o amministrative interne a ciascun paese.
Per quanto concerne gli ultimi sviluppi, la Commissione ha recentemente proposto al Consiglio dell’Unione Europea una proroga di sei mesi ai controlli alle frontiere interne dell’area Schengen, ripristinati lungo alcuni dei confini di Austria, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia; a questi paesi si deve inoltre aggiungere la Francia, in cui lo stato d’emergenza proclamato in seguito agli attacchi terroristici di Parigi ha consentito di riattivare i controlli su tutti i confini. L’iniziativa rientra nei limiti del Trattato di Schengen e secondo la Commissione sarebbe motivata dalle carenze greche nella gestione delle frontiere esterne; si spera in tal modo di prevenire l’intensificarsi del flusso migratorio su quella che è divenuta tristemente nota come la rotta balcanica.
Un’altra delicata proposta della Commissione riguarda la riforma del sistema di asilo, teoricamente ispirata ad una maggiore equità degli oneri relativi alla gestione dei flussi: le richieste d’asilo dovranno sempre essere presentate nel paese d’ingresso (a meno che il richiedente non abbia famiglia altrove), ma si introdurrebbe un meccanismo di ridistribuzione quando un paese fosse sottoposto ad un numero eccessivo di domande; qualora uno Stato decidesse di non accettare il ricollocamento sul proprio territorio, sarebbe costretto a versare un “contributo di solidarietà” di 250.000 euro allo Stato verso il quale il richiedente sarebbe in tal caso reindirizzato. Rispetto alla ferma opposizione di diversi governi dell’Est al suddetto disegno di riforma (in particolare da parte del Gruppo Visegrád), la recente proposta italiana per un migration compact ha ricevuto un’accoglienza piuttosto positiva: il documento propone un approccio contrattuale verso i paesi di partenza dei flussi, che prevede lo stanziamento di risorse europee verso il Nord Africa – in particolare la Libia – in cambio di collaborazione sulla gestione dei flussi e sui rimpatri.
La riforma del sistema d’asilo prevede che qualora uno Stato decidesse di non accettare il ricollocamento sul proprio territorio, sarebbe costretto a versare un “contributo di solidarietà” di 250.000 euro allo Stato verso il quale il richiedente sarebbe in tal caso reindirizzato
La proposta mira sostanzialmente a replicare l’accordo stipulato con la Turchia per stabilizzare i paesi di provenienza, tramite accordi ad hoc per interrompere l’afflusso dei “migranti economici”, che non hanno diritto d’asilo e non rientrano dunque nel meccanismo di ricollocamento. A tal proposito, si deve sottolineare che l’approccio italiano ha suscitato anche l’approvazione di Berlino e della Cancelliera Merkel, che non condividono tuttavia il nodo cruciale della forma di finanziamento: se il governo italiano puntava all’introduzione di una sorta di eurobond per l’Africa, la Germania sembra maggiormente orientata a individuare risorse attraverso il bilancio dell’UE, magari grazie all’introduzione di un’apposita imposta a livello europeo.
In ogni caso, l’intensificazione dei controlli all’interno di Schengen e i contrasti sui progetti di riforma del sistema d’asilo e sulle politiche migratorie nel loro insieme non rappresentano i sintomi più evidenti della persistente crisi in cui l’Unione sembra essere sprofondata: la costruzione di veri e propri muri lungo alcuni dei confini interni scuote profondamente le radici stesse del progetto politico europeo. Il filo spinato già collocato o in via di realizzazione in diverse frontiere fornisce un altro esempio dell’imbarbarimento in corso, frutto dell’idea – piuttosto diffusa e alquanto discutibile – che una barriera fisica sia in grado di fermare flussi migratori mossi dalla disperazione. A tal proposito risultano emblematiche le violente immagini provenienti dai campi di Idomeni (al confine greco-macedone) e di Calais (rinominato “the jungle”), così come i duri scontri al Brennero tra polizia e manifestanti No Borders, scaturiti dai progetti di barriera ventilati dall’Austria.
Nella fattispecie italiana, le minacce austriache di chiusura del valico del Brennero hanno provocato un’aspra polemica tra Roma e Vienna, soprattutto tra il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e il leader del partito dell’estrema destra FPӦ, Heinz Christian Strache. Oltre alla questione umanitaria e all’immancabile retorica cui questa dà luogo nell’agone politico e mediatico, sembra carente l’attenzione generale verso i fatti: l’annuncio austriaco circa l’intenzione di erigere una barriera sul confine italiano risale infatti al 7 aprile scorso, momento in cui – secondo tutti i dati ufficiali – il flusso migratorio in ingresso si era decisamente ridimensionato rispetto ai mesi precedenti.
L’atteggiamento e le scelte politiche delle capitali europee infatti sono spesso riconducibili a transitori interessi elettorali dei partiti di governo, più che alla volontà di individuare una soluzione ragionevole e duratura alla questione migratoria. Da questo punto di vista, il caso austriaco risulta paradigmatico: dall‘andamento dei sondaggi degli ultimi mesi si osserva chiaramente l’impennata elettorale dell’estrema destra dell’FPӦ alle ultime presidenziali e la parallela perdita di consensi dei popolari e dei socialdemocratici, che hanno governato il paese sin dal secondo dopoguerra; entrambi i partiti hanno inutilmente tentato di fermare l’emorragia sposando alcune delle battaglie politiche della destra ultra-nazionalista
La minaccia sul Brennero deve dunque essere inserita all’interno di questa tendenza generale, che sembra purtroppo diffondersi sempre più velocemente: per interrompere questo circolo vizioso è necessario che la politica e l’informazione facciano ciascuna la propria parte, rifiutando di prestare il fianco alle destre xenofobe ogni qualvolta si presenti un appuntamento elettorale. La difesa dell’Europa dei popoli e dell’accoglienza passa anche attraverso la tutela del principio di libera circolazione, che non può dunque essere messo in discussione dai governi europei di fronte al primo sondaggio sfavorevole.