Il dato è di quelli inattesi: -12% di export verso la Cina. Oltre che inatteso, è anche contrario a quello diffuso dall’Istat. Viene dalla Fondazione Italia-Cina, che lo ha messo nero su bianco nel suo rapporto 2016, partendo dai dati cinesi delle importazioni dall’Italia. Come mai questo calo? Perché le nostre esportazioni in alcuni segmenti si sono bloccate di botto. Non cominciamo a piangerci addosso o a invocare il “fare sistema”. Quello che è successo non dipende dalle imprese italiane, ma dalla Cina che ha chiuso i rubinetti. La questione non riguarda solo l’Italia, perché le importazioni cinesi sono scese del 14% nel 2015. Il fatto è che la Cina lo può fare, almeno per ora: quando decide che un proprio settore è strategico, aggiorna il suo catalogo degli investimenti esteri, che ha una lista di settori incoraggiati, ristretti e proibiti. Ne sanno qualcosa le imprese del meccano-tessile, che hanno visto crescere il mercato cinese per anni, finché nel 2014 hanno assistito all’abbassamento della saracinesca e a un crollo improvviso di un quarto del mercato. Nel 2015 le esportazioni dall’Italia alla Cina di macchinari e tecnologia nucleare, macchinari e attrezzature elettriche e articoli in metallo sono scese tra il 16 e il 18%, quelle dei mezzi di trasporto di quasi il 40 per cento.
Se ci sono state queste chiusure è perché il Paese sta cambiando pelle. È la nota “nuova normalità”, quella che nelle intenzioni del governo, certificate dal Tredicesimo piano quinquennale (2016-2020), sposterà sempre più gli ingredienti dell’economia cinese. Si passa dal modello fatto di investimenti pubblici ed export a uno fatto di consumi interni, più servizi e produzioni di maggiore qualità. Il Pil rallenterà, anche se la crescita media sarà del 6,5% da qui al 2020. Gli effetti del cambio di passo cominciano già a vedersi, con i servizi che nel 2015 hanno già passato il 50% del Pil, mentre i dipendenti del terziario hanno superato quelli dell’industria. Intanto l’urbanizzazione continua, ai ritmi più alti che l’umanità abbia mai conosciuto, e la robotica avanza spedita, così come il costo del lavoro (+200-300% tra il 2010 e il 2020).
«Il calo dell’export è paradigmatico del cambiamento del modello di sviluppo», spiega a Linkiesta Alberto Rossi, responsabile marketing della Fondazione Italia Cina e analista del CeSIF, Centro Studi per l’impresa. «Quando si dice che il modello cinese punta a una cosa e non a un’altra non si parla di un semplice intento, ma di misure concrete», racconta a margine del convegno di presentazione del rapporto, a Milano. In questo calo, aggiunge, «il catalogo degli investimenti incide molto sui settori in cui sono state decise delle restrizioni. È la fine della “golden age” di cui parlano in molti, che coincideva con le praterie per chi investiva in certi settori».
Le nostre esportazioni in Cina in alcuni segmenti si sono bloccate di botto. Non cominciamo a piangerci addosso o a invocare il “fare sistema”. Quello che è successo non dipende dalle imprese italiane, ma dalla Cina che ha chiuso i rubinetti
Dalla nuova normalità noi italiani ne potremmo trarre moltissimi vantaggi, ma se per ora non lo stiamo facendo è perché nei primi dieci settori dell’export italiano in Cina e dell’export cinese in Italia, nove coincidono. In altre parole, stiamo ancora cercando di esportare dove loro vogliono far salire la qualità delle produzioni. E si chiudono. Il bilancio tra restrizioni e aperture è complesso, ma è indubbio che esiste un protezionismo che si è fatto più duro. C’è un controllo del mercato che va al di là dei dazi commerciali, con «aste e bandi pubblici gestiti in maniera da favorire le imprese locali», un accesso facilitato al credito per le imprese statali, che sono sempre più competitive, un clima che l’80% delle multinazionali americane giudica meno favorevole di prima alle imprese straniere. E una nuova legge sulla sicurezza nazionale che imporrà nuove restrizioni e controlli. Di contro c’è un allargamento delle zone franche (free trade zone) e una revisione del catalogo degli investimenti che nel 2015 ha visto dimezzarsi i settori ristretti. Quando una legge sugli investimenti stranieri sarà approvata, nel 2017 o 2018, il tutto dovrebbe essere controbilanciato con aperture e semplificazioni.
Dalla nuova normalità noi italiani ne potremmo trarre moltissimi vantaggi, ma se per ora non lo stiamo facendo è perché stiamo ancora cercando di esportare dove loro vogliono far salire la qualità delle produzioni. E si chiudono
Intanto, però, ci sono due temi legati che non lasciano tranquilli. Il primo è la sovraccapacità cinese in settori chiave come l’acciaio e la raffinazione, dovuta propria a un eccesso di investimenti pubblici realizzato alla fine degli anni Duemila. Il secondo è la possibile attribuzione alla Cina dello status di economia di mercato (Mes), nel dicembre 2016. Una misura che potrà avere un impatto paragonabile a quello ipotizzato dal trattato Ttip (tra Usa ed Europa), perché segnerà la fine dei dazi su una serie di prodotti (tra cui appunto l’acciaio) e quindi potrebbe portare a una vera invasione di prodotti cinesi. La conseguenza? La messa in ginocchio di interi settori. Del tema, rispetto al Ttip, si parla poco. Ma a dir la verità, c’è una persona che ha condotto una battaglia contro quest’attribuzione di status: Carlo Calenda, oggi neo-ministro dello Sviluppo economico, che da viceministro al Mise ottenne all’inizio dell’anno un rinvio di tale attribuzione. «Sono stati fatti, da istituti americani, degli studi sulla perdita di posti di lavoro: le conseguenze saranno importanti», ha detto Enrico Toti, avvocato dello studio legale Nctm, durante la presentazione del rapporto. Il riferimento è a una analisi dell’Economic Policy Institute, secondo la quale con il Mes nell’arco di 3-5 anni l’Unione europea perderebbe fino a 3,5 milioni posti di lavoro, dei quali fino a 400mila in Italia in conseguenza di un aumento del 25-50% dell’export cinese. L’istituto prevede una possibile perdita di 228 miliardi di euro, pari al 2% del Pil del continente. «La risposta sincera è che nessuno sa quali saranno gli effettivi cambiamenti che deriveranno dallo status di economia di mercato attribuito alla Cina – dice Alberto Rossi -. Ragioniamo sui fatti: in Europa c’è una parte di opinione pubblica contraria e l’Italia se n’è fatta capofila. La Fondazione Italia-Cina non dice se sia un bene o un male. L’importante è che ci sia reciprocità nelle misure».
La possibile attribuzione alla Cina dello status di economia di mercato (Mes), nel dicembre 2016, è stata avversata più di tutti in Europa dal neo ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Perché? Segnerà la fine dei dazi su una serie di prodotti, tra cui l’acciaio. La conseguenza sarà la messa in ginocchio di interi settori e 3,5 milioni di posti di lavoro persi in Europa
Il fatto è che, più che concentrarsi su quello che si è perso, ha molto più senso capire quali opportunità porteranno i nuovi cambiamenti. «Siamo nel pieno boom dei consumi in Cina e nessuna società con ambizioni globali può permettersi di ignorare il mercato cinese», scrive chiaro e tondo il rapporto. La popolazione cinese, 1,4 miliardi di persone, invecchia mediamente a tassi mai visti a causa della politica del figlio unico, la cui recente abolizione nel breve termine sposterà poco. Così, gli spazi per le imprese italiane che operano nel settore medicale (servizi, strutture per anziani, medicinali, macchinari) sono enormi, come ha sottolineato su Linkiesta Saro Capozzoli. Non solo: i dati della Fondazione dicono che i consumi non solo aumentano, ma crescono più velocemente per i beni non di prima necessità e in particolare da parte delle persone con un reddito medio-alto. Tradotto: ancora una volta si aprono praterie, questa volta per i marchi di lusso, dalla moda al vino. Quanto si possa crescere, se ci si muove nel modo giusto, lo ha spiegato durante la presentazione del rapporto una società come “La Collina dei Ciliegi”, che produce Amarone della Valpolicella. Muoversi nel modo giusto significa, in quel caso, non improvvisare e muoversi con un raggruppamento di imprese tale da avere una massa critica per parlare ai tavoli giusti (in totale arriva a 13 milioni di bottiglie). Non solo: significa avere una forte preparazione legale, una comunicazione che tenga conto dei gusti e dei mezzi di comunicazione cinesi (a partire da WeChat) e una copertura finanziaria fatta di factoring e assicurazione dei crediti, anche nei confronti di aziende locali cinesi sconosciute.
Le opportunità sono enormi e per coglierle bisogna capire, tra le altre cose, che oggi parlare di Cina non ha quasi senso. Se si guardano gli andamenti delle diverse province, dei diversi settori e perfino dei segmenti dentro i settori, la differenza è gigantesca. La scelta della localizzazione degli investimenti ora è cruciale, anche perché i costi del lavoro sono diversissimi tra provincia e provincia. E poi bisogna tatuarsi addosso la parola e-commerce. Chi non vende online, in Cina non solo è considerato un primitivo e si espone di più al rischio di copie. Perde un mercato dalle proporzioni quasi inimmaginabili. Basti pensare che nel solo ultimo “Single Day”, il giorno (11 novembre) ideato dal fondatore di Alibaba Jack Ma e dedicato alle offerte online, in Cina la spesa è stata pari a quella totale italiana in un anno. Le previsioni da qui al 2020 sono di passare dagli attuali 600 miliardi di euro a 1.600 miliardi di spesa online, con settori come l’elettronica di consumo che vedranno le vendite online superare quelle offline e un prodotto su quattro acquistato in rete. Già oggi la metà delle vendite online avviene tramite smartphone e il mobile commerce è quasi raddoppiato in un anno. Di fronte a questi cambiamenti drastici non c’è altra strada che guardare i dettagli, cambiare modello e farlo in fretta.
Nel frattempo ci sono altri punti fermi: gli investimenti cinesi nel mondo continueranno a correre e ancor di più lo faranno in Italia, dove nel 2015 l’aumento degli investimenti è stato del 30% e sono già 200 le imprese con proprietari cinesi. L’acquisto ormai in vista del Milan è solo un assaggio di quel che ci aspetta anche nel 2016. Ovunque c’è know how e valore aggiunto, c’è un investitore pronto a entrare. Così come pronti a entrare sono i turisti cinesi. La loro spesa tax free in Italia nel 2015 è aumentata del 56 per cento. Expo non c’entra, quindi per il 2016 non si aspetta alcun calo.