Da secoli l’uomo sogna di scoprire continenti sconosciuti. I miti di Atlantide e Mu lo dimostrano. Ma, senza scomodare la mitologia, scoprire che tali continenti esistono, ma non sono naturali, ma artificiali e fatti per l’80% di plastica e di spazzatura, non è senz’altro piacevole. Ci riferiamo al Pacific Trash Vortex, il “vortice di spazzatura del Pacifico”, una grossa chiazza di immondizia situata nell’Oceano Pacifico fra il 135º e il 155º meridiano Ovest e fra il 35º e il 42º parallelo Nord. Descritta già nel 1988 in un articolo della National Oceanic and Atmospheric Administration, agenzia americana di meteorologia che ne ipotizzò l’esistenza, l’immensa chiazza viene avvistata nel 1997 dal miliardario Charles Moore, petroliere convertitori all’ecologismo, dopo essersi avventurato in una zona di mare delle Hawaii poco frequentata.
«Ogni volta che arrivavo sul ponte per rilevare l’orizzonte – ricorda Moore –, vedevo una bottiglia di sapone, un tappo di bottiglia o una scheggia di plastica ballonzolare. Ero nel mezzo dell’oceano e non c’erano un posto in cui potessi spostarmi per evitare la plastica». La zona si caratterizzava per venti deboli, alta pressione e poca di fauna, condizioni che hanno facilitato l’accumulo di plastica e di altra spazzatura nel corso dei decenni. L’isola è immensa: per Alan Weitsman, in Il mondo senza di noi (2007), le valutazioni dell’Algalita Marine Reserch Fundation – gruppo ecologista creato da Moore – e della Marina americana, stimano che la sola plastica ammonterebbe a ben 3,5 milioni di tonnellate, senza contare il resto dei rifiuti che fanno salire la cifra a 100 milioni di tonnellate di spazzatura. Ulteriori fonti sostengono che l’“isola” ha un’estensione, non stimata con assoluta certezza, fra i 700.000 km² e i 10 milioni di km² e profondo 30 mt, occupando un’area tra lo 0,41% e il 5,6% dell’Oceano Pacifico, più grande della Penisola Iberica e più estesa della superficie degli Stati Uniti.
«Ogni volta che arrivavo sul ponte per rilevare l’orizzonte – ricorda Moore –, vedevo una bottiglia di sapone, un tappo di bottiglia o una scheggia di plastica ballonzolare. Ero nel mezzo dell’oceano e non c’erano un posto in cui potessi spostarmi per evitare la plastica»
Il fenomeno ha origini negli anni ’50 grazie al North Pacific Subtropical Gyre, una corrente vorticosa che ruota in senso orario e che risucchia la spazzatura, determinando un accumulo al centro del vortice e la loro aggregazione, e ha letteralmente creato un sistema a sé: la plastica, non essendo biodegradabile, viene fotodegradata, cioè disintegrata nella dimensione dei polimeri che la compongono, un processo che crea comunque inquinamento e policlorobifenili. Le particelle si comportano come il plancton, che se ingeriti dagli animali hanno gravi conseguenze, anche per noi, dato che quel pesce finisce nei nostri piatti. Spesso la causa di questo fenomeno è l’immondizia giunta dai continenti, ma a volte sono carichi di plastica caduti da container e dispersi in mare, in una zona dove la fauna ittica è ridotta ovviamente ai minimi termini, anche se talvolta parti dell’isola, dispersi dalla corrente, si arenano sulle spiagge delle Hawaii o in California.
Che fare per risolvere questa catastrofe ecologica? Alcuni ricercatori di varie università hanno proporsto la creazione di piattaforme mobili per il riciclo o la raccolta dei rifiuti, altri – il progetto Ocean Cleanup Array – potrebbero sfruttare le correnti marine per intrappolare i rifiuti e ripulire il mare, ma la soluzione passa dal capire che il problema si risolve con la prevenzione, come spiega Chelsea Rochman, a capo della spedizione Seapleax, che si sta occupando della vicenda sul campo.
E la soluzione è parzialmente la stessa: capire che il problema passa dal fatto che ogni anno produciamo ben 100 miliardi di kg l’anno di plastica, il 10% dei quali finisce in mare, e il riciclo. Lo si evince dalla collaborazione col Bureau of International Recycling (Bir), sponsor della spedizione avvenuta ad agosto 2009. «Il riciclo delle plastiche salva l’80 per cento dell’energia – spiega Elisabeth Christ del Bir –. La plastica nell’oceano è di diverso tipo, il riciclo dipende dall’uso di efficaci tecnologie di identificazione e separazione molecolare. In teoria, il biocarburante può essere ottenuto, ma ancora non abbiamo un progetto in merito. Bisogna però mettere in evidenza l’importanza che i prodotti vengano concepiti sin dall’inizio per il riciclo».