L’ultimo guru si chiama Jim Messina. È lo spin doctor scelto da Matteo Renzi per gestire la campagna del referendum costituzionale. Sbarcato dagli States alcuni mesi fa, lo stratega americano ha già dettato la linea da seguire. Per conquistare gli italiani si punta tutto sull’analisi dei big data e sul coinvolgimento diretto degli elettori. Da qui all’autunno migliaia di comitati elettorali dovranno spiegare la riforma ai cittadini. A loro il compito di convincere gli indecisi puntando su slogan semplici e chiare scelte di campo. Sarà una campagna porta a porta. Come quella che nel 2012, sempre organizzata da Messina, ha portato Barack Obama ad essere rieletto alla Casa Bianca. Chiare origini italiane, è l’ennesimo esperto di comunicazione politica in trasferta d’Oltreoceano. Prima di lui era già toccato a Stanley Greenberg, che nel 2001 ha guidato la campagna elettorale di Francesco Rutelli. E più recentemente a David Axelrod, in campo con Mario Monti. In entrambi i casi, non è finita bene.
Stavolta Jim Messina prova a riuscire dove gli altri hanno fallito. È una sfida decisiva: il presidente del Consiglio ha assicurato che in caso di sconfitta è pronto a ritirarsi dalla politica. Ecco perché Renzi chiede l’impegno di tutto il gruppo dirigente. Ogni parlamentare dovrà fare campagna sul territorio. E non solo loro. Il premier sogna di dar vita ad almeno 10mila comitati per il Sì. Sono già in distribuzione i kit per i militanti. Al loro interno pieghevoli illustrativi del provvedimento, Bignami per imparare i punti forti della riforma, suggerimenti e consigli per chi dovrà convincere gli elettori.
Contrariamente a quanto si pensa, il Cavaliere non ha mai appaltato le sue campagne a spin doctor americani. «Abbiamo ricevuto diverse visite di consulenti statunitensi – ricorda oggi Palmieri – Ma le nostre strategie elettorali le abbiamo sempre studiate in prima persona»
La strategia di Jim Messina può essere vincente? «Concettualmente il porta a porta mi convince» racconta Paolo Guarino, già docente universitario, esperto di comunicazione politica e protagonista di numerose campagne italiane (la più famosa è probabilmente quella che nel 2013 ha portato Ignazio Marino al Campidoglio). «Quando la politica è distante dai cittadini, gli elementi più motivanti sono proprio le relazioni personali». Tutto facile? Non proprio. «In America questo sistema funziona – continua Guarino – Specie se il porta a porta si basa su un messaggio attraente e una leadership carismatica. Ma non credo che sarà facilissimo trovare un messaggio fortemente motivante su un tema tecnico come la riforma costituzionale». Non solo. La riproposizione italiana della campagna obamiana rischia di essere più difficile del previsto. Quando si parla di porta a porta è impossibile prescindere dall’analisi dei big data, altro punto di forza della strategia di Jim Messina. «Da noi, però, c’è un problema legato alla privacy» racconta Sara Bentivegna, sociologa e docente di Comunicazione politica alla facoltà di Scienze Politiche dell’università La Sapienza. «In Italia le famose banche dati sugli elettori non sono così facilmente accessibili. Senza considerare che il Partito democratico americano può utilizzare dati incredibili, raccolti fin dal 2004, che permettono ai volontari di sapere a quali porte bussare e quali evitare».
«Greenberg era un bravissimo sondaggista – ricorda Sara Bentivegna – ma non riuscì a incidere nella campagna elettorale di Rutelli. In questo lavoro chi non conosce bene il nostro Paese è destinato a incontrare ostacoli insormontabili»
La politica italiana subisce troppo facilmente il fascino degli spin doctor Usa? Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia e storico responsabile delle campagne elettorali di Silvio Berlusconi, la pensa esattamente così. «La realtà politica e comunicativa statunitense – racconta – è profondamente diversa dalla nostra. Di conseguenza, il modello americano non è immediatamente sovrapponibile». E così affidare una campagna a un guru straniero rischia di essere un autogol. «Viste le precedenti esperienze tenderei a dire che è così» ragiona Guarino. Il problema è nelle diversità. Le elezioni a stelle e strisce sono molto diverse dalle nostre. «Nessuno di questi esperti è abituato al contesto italiano. Le campagna americane hanno tempi più lunghi, risorse economiche maggiori, persino l’atteggiamento dei tanti volontari è diverso: le persone sono davvero motivate e senza alcun interesse personale in gioco». Insomma, va bene ispirarsi alla politica d’Oltreoceano. «Ma serve un passaggio culturale – insiste Guarino – È inutile importare consulenti americani sperando che abbiano la bacchetta magica».
Per averne conferma basta fare qualche passo indietro nel tempo. Nel 2001 Francesco Rutelli affidò la sua campagna elettorale a Stanley Greenberg, storico stratega di Bill Clinton. Ma il leader dell’Ulivo fu superato facilmente da Silvio Berlusconi. «Greenberg era un bravissimo sondaggista – ricorda Sara Bentivegna – ma non riuscì a incidere in quella campagna elettorale. Del resto in questo lavoro chi non conosce bene il nostro Paese è destinato a incontrare ostacoli insormontabili». E il Cavaliere? Contrariamente a quanto si pensa, il leader di Forza Italia non ha mai appaltato le sue campagne a spin doctor americani. «Abbiamo ricevuto diverse visite di consulenti statunitensi – ricorda oggi Palmieri – Non sono mancati incontri sporadici e qualche colloquio. Ma le nostre strategie elettorali le abbiamo sempre studiate in prima persona. Slogan, materiali e parole d’ordine vengono scelti su misura da Berlusconi e da un piccolo gruppo di collaboratori».
Nel 2013 arriva in Italia il guru Axelrod. Durante la campagna elettorale cerca di rendere più disinvolta e alla mano la figura di Mario Monti, che ai suoi occhi appare troppo istituzionale. Obiettivo fallito, a giudicare dai risultati elettorali di Scelta Civica
Altra campagna, altro fallimento. Nel 2013 è la volta di David Axelrod, anche lui spin doctor di Barack Obama, chiamato a seguire la campagna elettorale di Mario Monti. L’intuizione del guru americano è quella di rendere più disinvolta e alla mano la figura di Monti, che ai suoi occhi appare troppo istituzionale. Obiettivo fallito, almeno a giudicare dai risultati elettorali di Scelta Civica. «In astratto aveva anche ragione a cercare di umanizzare Monti» insiste Bentivegna. «Ma nel poco tempo a disposizione non era possibile. E poi diciamo la verità, la forza di Monti era anche nella sua distanza». Il problema, ancora una volta, risiede nell’incapacità per uno straniero di comprendere a fondo l’opinione pubblica italiana. «I guru americani impegnati nelle nostre campagne elettorali hanno già le loro difficoltà, ma quando arrivano a ridosso delle elezioni, come nel caso di Axelrod, per loro diventa ancora più difficile» spiega il berlusconiano Palmieri.
Inevitabilmente i ricordi tornano al 2006. L’ultimo referendum costituzionale in Italia risale a quell’anno. Tra i protagonisti della campagna elettorale c’era proprio Palmieri. «In quell’occasione abbiamo avuto molto poco tempo per fare la nostra campagna di comunicazione. Prima c’erano altre due elezioni» ricorda il deputato di Forza Italia. «Le Politiche, con la contestata vittoria di Prodi, si erano svolte all’inizio di aprile. Le amministrative a fine maggio. Il referendum era in programma il 29 e il 30 giugno». Dieci anni fa, come oggi, i promotori del Sì decisero di puntare sul coinvolgimento diretto dei cittadini. Internet era molto diverso, i social network di fatto ancora non esistevano. «L’unico modo per raggiungere tutti gli elettori fu quello di spedire in ogni casa una lettera di Berlusconi con un pieghevole che spiegava in sintesi i contenuti della nostra riforma». Molte analogie e altrettante differenze con la situazione attuale. «Rispetto a quella campagna referendaria, Renzi può contare anche su un contesto mediatico favorevole – racconta Palmieri – Mentre nel 2006 era contro di noi. E poi c’è il fattore tempo. Noi non l’abbiamo avuto, oggi Renzi ha tutto il tempo che gli serve».