Il Novecento, secolo di grandi totalitarismi e strabilianti scoperte scientifiche come la relatività e la doppia elica del DNA, ha avuto il suo filosofo più spregiudicato in un topo. O almeno questa è l’opinione di Giulio Giorello, filosofo, matematico ed epistemologo, da sempre accanito fan di Topolino e delle sue avventure.
Lontano dalla vulgata Topolino “amico degli sbirri”, tutto legge, ordine e mediocrità, Giorello vede in lui un vero rivoluzionario, che ha avuto l’audacia di mettere in discussione la costellazione delle certezze stabilite, e che non ha nulla da invidiare a pensatori blasonati come Russell, Popper o Heidegger. Ambizioni filosofiche a parte, il successo mondiale di Mickey Mouse come marchio, meme e icona è innegabile. E soprattutto con l’Italia il Topo più famoso del mondo ha da sempre un rapporto privilegiato. E non solo perché la Walt Disney Company Italia, fondata nel 1938, è stata la prima filiale internazionale Disney al mondo. Il successo è dovuto soprattutto al fumetto Topolino, creato dall’edicolante ed editore fiorentino Giuseppe Nervini, e distribuito per la prima volta nelle edicole italiane nel Natale del 1932. Un mese prima della pubblicazione statunitense, il Mickey Mouse Magazine.
È proprio per celebrare questo sodalizio, nato nel 1930 con la prima illustrazione a lui dedicata sull’inserto domenicale L’Illustrazione del Popolo, che è nata la mostra open air “Topolino e l’Italia”. Venti statue alte quasi due metri in mostra nei giardini della Triennale di Milano dal 22 aprile al 15 maggio. Tutte decorate in modi diversi da altrettanti marchi italiani, sul modello degli United Buddy Bears di Berlino.
Dopo Milano, le statue viaggeranno per la penisola facendo tappa in diverse città, per poi tornare in Triennale a novembre, dove saranno battute all’asta da Sotheby’s per una raccolta fondi a favore dell’Abio, l’associazione del bambino in ospedale. C’è un dunque un Topolino Ferrarelle, tutto bollicine azzurre, un Topo oculista firmato Salmoiraghi e Viganò, un Topolino rider con jeans e giacca di pelle per un’altra grande icona: il marchio Vespa. E ancora Topi astratti e multicolor come quello di Giochi Preziosi o a decoupage, rivestito con le pagine stesse dei propri fumetti, come quello realizzato da Panini Comics.
Il successo mondiale di Mickey Mouse come marchio, meme e icona è innegabile. E soprattutto con l’Italia il Topo più famoso del mondo ha da sempre un rapporto privilegiato: fu distribuito per la prima volta in edicola nel 1932
Uno strano gioco: “marchiare il marchio”, imprimendo l’individualità della singola azienda italiana su una delle più famose icone pop globali, consacrata tale perfino da Andy Warhol. Una sorta di “appropriazione debita” per celebrare un rapporto che ha superato da un bel po’ le nozze d’oro. Non a caso la Fiat 500, prodotta dal 1936 al 1955 come prima macchina in Italia destinata al consumo di massa, non era altro che la mitica Topolino, ancora oggi simbolo di un’epoca.
D’altra parte sembra proprio che Mickey Mouse porti fortuna; di certo ha fatto la fortuna del suo creatore. Nel 1928 infatti, il non ancora trentenne Walter Elias Disney non se la passava molto bene, tanto che lui e il suo braccio destro, Ub Iwerks, decisero di giocarsi il tutto e per tutto puntando sul sonoro. La cavia designata era il loro nuovo personaggio, un topino antropomorfo, e il film era Steamboat Willie, un cortometraggio di animazione in bianco e nero con sonoro sincronizzato,che lo storico d’animazione
Giannalberto Bendazzi definisce «il giro di boa di tutta l’animazione mondiale». Il successo fu strepitoso.Da allora il Topo Mickey, scampato alla Grande Depressione e sopravvissuto indenne a una guerra mondiale, è approdato alla modernità, passando dall’America all’Europa e diffondendosi a livello globale come uno dei personaggi più iconici del ‘900. «Mickey Mouse ha vissuto le più bizzarre avventure e affrontato quesiti come la terribile libertà del “quarto potere”, gli ambigui prodigi della scienza asservita alla guerra, l’impossibilità della giustizia e la difficoltà di trattare con le culture “altre”, per non dire delle sfumate regioni del mito o dell’aldilà», spiega Giulio Giorello nel suo libro La filosofia di Topolino.
https://www.youtube.com/embed/BBgghnQF6E4/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-ITIl filosofo vede in lui il personaggio di un romanzo di formazione, una chiave per interpretare il mondo. Nel suo modo bizzarro e inconsueto di proporre soluzioni ai problemi che di volta in volta è costretto ad affrontare, Topolino non dà mai nulla per scontato: «Detesta i cavilli burocratici e spesso si mette contro la legge per portare avanti la sua idea di giustizia. È un pragmatista empirista e, incontrando la cultura europea, diventa il topo pensante e dubitante, seguendo il solco di pensatori che vanno da Cartesio a Russell».
Ribelle o conformista che sia, la forza di Topolino, la sua grande iconicità, sta nel profondo senso di familiarità che comunica, come quando si imparava i classici dai suoi albi – da leggere a tutte le età l’Odissea di Topolino di Tito Faraci – o la straordinaria riconoscibilità della sua silhouette, anche quando è tutta bianca e decorata con fiori, come nella statua realizzata dal marchio Monnalisa, o rossa e di design come quella di Kartell.
Ciò che colpisce di Topolino è la sua universalità. Forse ha ragione Giorello quando paragona a un romanzo di formazione le sue storie quotidiane che ci coinvolgono un po’ tutti: storie di “uomini e topi”.