La Brexit potrebbe non essere un problema: alla Gran Bretagna resta comunque il Commonwealth, no? A chi, prima del referendum di giovedì 23, chiedeva conto dell’uscita dal mercato unico europeo, i sostenitori del “Leave” rispondevano elencando i nomi dei sudditi di un tempo che fu. «Per come stanno le cose – aveva affermato il deputato Ukip Paul Nuttall, responsabile del partito nel nord-est (dove i favorevoli alla Brexit sono stati il 53% dei votanti) – stiamo mancando una grande occasione. Per esempio, ad oggi i rapporti commerciali con l’India valgono solo l’1,5% del totale nazionale. Una cosa ridicola se si pensa che il piccolo Belgio e la Germania arrivano al 3%. Peraltro senza avere nessuna relazione linguistica, culturale o storica con l’India. E se questo non ci fa capire che stiamo sottovalutando un mercato enorme, non so che altro dire».
Il primo trattato del Commonwealth risale al 1926. Allora, con la Dichiarazione Balfour, il Regno Unito concedeva il riconoscimento de facto dell’indipendenza delle colonie autogovernate e dei domini: «Uguali nello status, in nessun modo inferiori in alcun aspetto dei loro affari interni ed esteri, sebbene uniti da un’alleanza comune alla corona e liberamente associati come membri del Commonwealth britannico delle Nazioni», si legge nel documento. Presiueduto dalla Regina Elisabetta II nel ruolo di garante della libera associazione degli stati membri, l’attuale Commonwealth (delle Nazioni formalizzato nel 1946) conta 53 nazioni (per un totale di oltre due miliardi di persone, compresi i 20 mila abitanti di Nauru e Tuvalu: i due paesi meno popolosi dopo il Vaticano) ha l’obiettivo di promuovere una stretta cooperazione economica, culturale e sociale su basi di uguaglianza fra gli ex-domini britannici. Nessun vincolo, tuttavia, impedisce di uscire o entrare nel Commonwealth che, a tutti gli effetti, si identifica come un’organizzazione intergovernativa volontaria.
Il primo trattato del Commonwealth risale al 1926. Presiueduto dalla Regina Elisabetta II nel ruolo di garante della libera associazione degli stati membri, l’attuale Commonwealth (delle Nazioni formalizzato nel 1946) conta 53 nazioni (per un totale di oltre due miliardi di persone, compresi i 20 mila abitanti di Nauru e Tuvalu: i due paesi meno popolosi dopo il Vaticano) ha l’obiettivo di promuovere una stretta cooperazione economica, culturale e sociale su basi di uguaglianza fra gli ex-domini britannici. Nessun vincolo, tuttavia, impedisce di uscire o entrare
Negli ultimi 40 anni il valore economico del Commonwealth è aumentato del 2,6% in più rispetto a quello dell’Eurozona. Tutto grazie allo sviluppo di alcuni Paesi membri come India, Canada, Australia, Singapore e Malesia che insieme rappresentano i 4/5 del commercio totale generato: un export che nel 2013 valeva 3,4 trilioni di dollari. Normale, quindi, pensare che possa essere questa la nuova dimensione della Gran Bretagna post-Brexit: capofila di un insieme di stati fra cui promuovere un’area di libero scambio parallela a quella europea e basata, innanzitutto, su un passato comune. «La Brexit è una grande opportunità per rifocalizzare la nostra economia sul mercato globale. Un’opportunità per rinnovare la nostra posizione all’interno del Commonwealth e dell’anglosfera», scrive sul proprio sito l’ex ministro degli Esteri conservatore David Davis. Una vera e propria strizzata d’occhio ai circa 900 mila elettori provenienti da una delle nazioni del Commonwealth che, in quanto residenti nel Regno Unito, avevano il diritto di votare a favore o contro la Brexit e che i sostenitori del “Leave” hanno cercato di convincere utilizzando alla rovescia una delle argomentazioni più forti messe in campo: il controllo dell’immigrazione.
Prima del 1973, anno dell’entrate della Gran Bretagna nell’Ue, i lavoratori proveniente dal Commonwealth godevano di una corsia preferenziale per entrare nel mercato inglese. Dopo quella data, nonostante l’opt-out su Schenghen, la libera circolazione nel mercato unico europeo ha eroso quel privilegio. Non a caso, alcuni dei maggiori protagonisti della campagna pro-Brexit sono stati gli imprenditori del curry, costretti a chiudere a causa della regolamentazione comunitaria. Chi gestisce una delle 12 mila curry house lamenta la difficoltà ad assumere dipendenti con le giuste capacità culinarie. In gran parte si tratta di personale proveniente da India, Pakistan o Bagladesh che per restare nel Regno Unito devono dimostrare di avere un salario minimo di 35 mila sterline l’anno contro una paga media annuale per il ruolo di chef che si aggira attorno alle 25 mila sterline. Rivedere queste cifre e, perché no, prevederne di diverse a seconda del Paese d’origine potrebbe essere il primo passo per riallacciare i rapporti con gli ex-sudditi di Sua Maestà che, nel frattempo, hanno lanciato la petizione Stop35k per dare voce anche ad australiani, canadesi, neozelandesi, sudafricani, ecc.
Insomma, nell’ottica dei sostenitori del “Leave”, il Commonwealth ha rappresentato l’alternativa che mancava e pure un rimedio alle accuse di xenofobia o isolazionismo. Peccato sia una prospettiva fragile e soprattutto dipendente dalla volontà degli altri Paesi membri di riprendere dei rapporti diplomatici che avevano senso di esistere in virtù della Gran Bretagna nell’Ue. Non a caso, gli indiani (dopo aver chiuso un accordo da 9 miliardi di sterline nel 2015 con Londra) ora stanno pensando di abbandonare il Commonwealth, come hanno fatto sapere su Facebook il ministro del Carbone Anil Swarup e il capo dei ministri della città-capitale di Delhi Arvind Kejriwal lanciando un possibile referendum sul tema. Inoltre, per tutta la campagna referendaria nessun leader politico delle ex-colonie si è speso a favore della Brexit. «Non c’è alcun dubbio: si è più forti insieme», aveva affermato il presidente canadese Justin Trudeau a poche ore dal voto. Una frase che puntava indirettamente ai negoziati sul Ceta (l’accordi commerciale fra Canada ed Europa): «La Gran Bretagna è sempre stata una voce positiva al tavolo dei negoziati. Quindi speriamo che il voto del 23 giugno continuerà ad assicurare al Ceta il supporto necessario». Come a dire: va bene la democrazia, ma a noi interessa l’Ue.
«Commonwealth e Comunità Europea non sono in competizione, piuttosto hanno una vera e propria partnership», aveva ricordato Patricia Scotland, segretaria generale del Commonwealth. «Per quanto mi riguarda – aveva continuato ai microfoni di Reuters – una partnership è migliore di qualsiasi separazione. Di più: non si può sostituire la Ue con il Commonwealth, piuttosto si dovrebbero integrare». Il messaggio è chiaro: una Gran Bretagna che non possa essere più la testa di ponte per l’Europa perde il proprio appeal. Meglio l’Irlanda e la sua politica fiscale agevolata a questo punto. Oppure basta aspettare e puntare tutto sull’indipendenza della Scozia. O ancora, perché non virare su Malta? Assieme a Cipro rappresenta uno dei due Paesi che fanno parte tanto del Commonwealth quanto dell’Unione Europea (con la prima che nel 2017 assumerà anche il semestere di presidenza della Ue).
«In caso di Brexit, la Gran Bretagna sarà trattata come un amico, non come un famigliare. Le relazioni saranno educate, ma non intime. Di più: il Rego Unito sarà rispettato, ma non avrà una fiducia incondizionata»
«In caso di Brexit – aveva avvertito il primo ministro maltese Joseph Muscat – la Gran Bretagna sarà trattata come un amico, non come un famigliare. Le relazioni saranno educate, ma non intime. Di più: il Rego Unito sarà rispettato, ma non avrà una fiducia incondizionata». Parole che fanno capire come il vero problema per i membri del Commonwealth sia una britanizzazione dell’organizzazione. Singapore e Malesia, per esempio, godono di maggiori benefici attraverso l’Asean (l’associazione degli stati del sud-est asiatico) e il rapporto con gli Stati Uniti piuttosto che con un mercato, quello inglese, di “soli” 64 milioni di persone e basato essenzialmente sui servizi. Mentre l’ex primo ministro Australiano, Tony Abbot, è divenuto famoso col motto: «Meno Ginevra, più Giacarta», mettendo in chiaro che il futuro della sua nazione è a est e non a ovest. Discorso diverso per l’Africa. Qui il tema è quello degli aiuti e delle sovvenzioni, soprattutto all’agricoltura. La Gran Bretagna è da sempre uno dei maggiori sostenitori dei programmi europei a favore dei contadini africani che, dopo la Brexit, rischiano di scalare in fondo nella lista delle priorità e avere meno voce in capitolo nella loro battaglia contro le politiche comunitarie (Cap) che sostenendo l’offerta disinnescano la concorrenza a livello globale. Non solo. In caso di crollo del Pil britannico, l’Africa perderebbe anche lo 0,7% di prodotto interno lordo garantito finora dal Regno Unito.
L’uscita della Gran Bretagna dalla Comunità Europea riporta alla mente le parole di Wiston Churchill. Alla fine del secondo conflitto mondiale, Churcill prevedeva tre possibili scenari per garantire una posizione dominante al suo Paese negli anni a venire. Il primo riguardava il ruolo di leadership dell’UK nel processo di europeizzazione in atto. Il secondo puntava sul Commonwealth come mercato e centro di forza parallelo. Il terzo prevedeva una rinnovata alleanza anglo-americana. Delle tre, solo l’ultima sembra oggi all’opera anche se l’ex-colonia (e tutti gli altri domini) nel frattempo hanno perso interesse nel regno di Sua Maestà. Perché 64 milioni di sudditi contano meno di una comunità di oltre 500 milioni di cittadini.