Nel maggio del 1969, due mesi prima di morire, il filosofo tedesco Theodor Wiesengrund Adorno interviene alla radio tedesca. «Ich habe kein Hobby», io non ho nessun hobby, dice. Al centro del suo attacco c’è uno dei pilastri fondamentali della società occidentale: il tempo libero, o meglio, il tempo non lavorativo, quello messo fintamente a disposizione delle masse di servi moderni — sostiene il tedesco — appena escono dai luoghi di lavoro.
Perché il tempo libero non è, a dispetto di quanto crediamo, il più importante successo della società industriale. Tutto il contrario, il tempo libero, proprio inteso come tempo non lavorativo complementare — e funzionale — all’orario di lavoro, è soltanto una invenzione, un’illusione creata per infinocchiare le classi subalterne e far loro credere di avere qualcosa da fare, nella vita, oltre che produrre.
Plasmato su un concetto nobile come l’ozio latino, che però, al contrario del nostro tempo libero, era riservato alle classi superiori e alle loro attività intellettuali, il tempo libero moderno è una truffa, uno specchietto per le allodole, ovvero per infinocchiare i lavoratori e trasformarli, quando non producono, in consumatori. È un meccanismo perfetto: lavora e produci, riposa e consuma. Ma non c’entra nulla né con la felicità, né con la realizzazione personale. È tempo per il divertimento, questo sì nel senso latino, ovvero dello sviare, del distogliere, del deviare.
Il vero tempo libero — se fosse realmente ispirato all’ozio latino e se fosse sul serio messo a disposizione delle classi subalterne — sarebbe rivoluzionario. Sarebbe il tempo della riflessione, dello studio, della comprensione. E sarebbe finalmente a disposizione di tutti. Ma non lo sarà, perché il tempo libero, quello a disposizione della coscienza, è pericoloso. è sedizioso.
È nell’ozio che si coltiva la coscienza, si progettano le rivoluzioni e le trasformazioni dello status quo. È per questo che il tempo realmente libero è il grande nemico di una società industriale come la nostra, il cui più grande timore è proprio la presa di coscienza della vasta maggioranza subalterna che, grazie al suo lavoro e ai suoi consumi, mantiene in vita il meccanismo che la manteien in catene.
E invece no. Il tempo libero, ormai da quasi un secolo, è stato conquistato dalle lobby degli hobby, dall’industria dell’intrattenimento e dei divertimenti, è diventato ormai il tempo della sospensione della coscienza, in attesa di tornare a lavorare. È così che il tempo libero è diventato un’ossessione, qualcosa di simile a una religione con miliardi di adepti
Ma al posto di un libro, come tutte le altre religioni, questa non ha bisogno di un supporto per essere veicolata. Non ne ha bisogno perché non c’è nessun messaggio da veicolare: il tempo libero è un macguffin, come la valigetta di Pulp Fiction: non è importante cosa ci sia dentro, l’importante è continuare a corrergli dietro, come egocentrici criceti che corrono all’infinito su una ruota dorata. Dentro una gabbia che chiamano casa.
Post scriptum: La voce di Adorno, persa nell’etere nel maggio del 1969, non è sola. E il suo affondo non è né datato, né da prendere come lo sfogo di un vecchio nostalgico. La sua critica è pertinente e, a distanza di 50 anni, è forse ancora più importante. Non a caso questo discorso ha dei frutti ipercontemporanei, aggiornati e resi ancor più acuminati dal filosofo sud coreano Byung-Chul Han, che nelle illuminanti pagine di Nello sciame (Nottetempo), nel 2015, scrive: «L’ozio comincia là dove il lavoro cessa completamente. Il tempo dell’ozio è un altro tempo. L’imperativo neoliberista della prestazione trasforma il tempo in tempo di lavoro, totalizza il tempo di lavoro. La pausa ne è solo una fase. Oggi non abbiamo tempo all’infuori di quello lavorativo. Ce lo portiamo dietro, così, non solo in vacanza, ma anche nel sonno. Per questo dormiamo agitati: i soggetti di prestazione spossati si addormentano come si addormenta una gamba. Poiché serve alla rigenerazione della forza lavoro, anche il riposo non è nient’altro che una modalità del lavoro: il rilassarsi non è l’Altro dal lavoro, ma il suo prodotto».