Gli immigrati hanno salvato la Regina. O almeno la pensione di Elisabetta II e consanguinei. Se a dirlo fosse stato un membro della famiglia reale britannica si sarebbe subito pensato a una boutade o a un folkloristico servizio del tg con alle spalle il Tamigi e Westminster. Invece lo ha detto un tedesco. Assieme a un italiano. Ed è stato il putiferio.
Il professor Christian Dustmann nel 2014 ha dimostrato quanto è costata l’immigrazione alle casse dell’ex impero. Risposta: nulla. Anzi, dal punto di vista delle finanze pubbliche gli immigrati arrivati fra il 2001 e il 2011 hanno versato 22 miliardi di sterline in più di quelli che hanno ricevuto. Queste le conclusioni dello studio “The fiscal effects of immigration to the UK” condotto dal docente di University College London e pubblicato su Economic Journal.
Gli immigrati? Hanno salvato la pensione di Regina Elisabetta e di tutta la Corona. Hanno versato 22 miliardi di sterline in più di ciò che hanno ricevuto fra 2000 e 2011. Ma attenzione ai paragoni con il resto d’Europa e la crisi dei rifugiati
Si parlava sopratutto di immigrazione recente dal resto d’Europa, dopo l’allargamento della Ue nel 2004 – quando il Regno Unito fu il solo, assieme a Svezia e Irlanda, a non porre limiti d’ingresso a romeni, bulgari, polacchi, in generale est europeo e, dopo la crisi, anche al sud del Vecchio Continente, che nel frattempo si era trasformato in un bacino di manodopera pronta a lasciare il Paese d’origine.
Il dato non dovrebbe sconcertare perché il profilo del migrante economico in quel periodo è abbastanza facile da tracciare: giovane lavoratore che versa le imposte e non riceve pensione o sussidi, senza figli e famiglia, senza problemi di salute che gli impongano di gravare sul sistema sanitario e che non vanta crediti d’imposta nei confronti dell’erario britannico. A ben pensare quei 22 miliardi non paiono sovrastimati.
Eppure tanto è bastato a scatenare i falchi anti-invasione ben radicati nel Regno Unito. Il più moderato di tutti urlò contro intuitivamente al “turismo del welfare”. Dustmann fu accusato di aver falsato i dati perché anche lui era un migrante economico – è tedesco – come i suoi coautori italiani, tutti in conflitto d’interesse. Poi è stato accusato di non aver considerato gli ultimi tre anni, 2011-2014, quando questa tendenza positiva si sarebbe invertita, a detta dei suoi detrattori. Quello che non sapevano è che nessuna ricerca economica considera il dato al 31 del mese precedente. Per una semplice ragione: il dato non esiste, almeno negli uffici di statistica nazionale.
Il professor Dustmann, tedesco, e Tommaso Frattini, italiano, furono accusati di aver falsato la ricerca perché anche loro erano dei migranti economici
Le polemiche non provenivano da ambienti di nicchia di estrema destra, o meglio non solo, ma da gruppi di pressione come Migration Watch e addirittura dall’ex ministro per l’immigrazione, James Brokenshire. A due anni di distanza il clima è tutt’altro che cambiato, sia in Europa che nella Gran Bretagna che corre a grandi falcate verso il referendum per la Brexit del 23 giugno, e Dustmann lo riconosce, a margine della sua lezione tenuta al Festival dell’Economia di Trento in una sala Kessler gremita per l’occasione. Il tema? Lo stesso della ricerca del 2014 ma allargato all’intero continente: “Gli aspetti politici ed economici dei profughi”, le conseguenze economiche della più grande sfida che l’Europa si trova ad affrontare – la crisi di migranti e rifugiati provenienti da Medio Oriente e Africa. La più grande sfida attuale ma non di sempre, avverte l’economista: «Nel ’45-’46 ci furono 15 milioni di persone che si spostarono dopo la fine della guerra. Nel 1992 700mila persone fuggirono dalla Bosnia, di cui 400mila solo in Germania. Non pensiamo di avere a che fare con l’impossibile».
Il presidente degli economisti europei del lavoro sciorina dati sulle richieste d’asilo, quelle accolte e quelle negate negli ultimi anni. Mostra grafici a montagne russe che spiegano come la definizione di rifugiato stabilita a Ginevra venga resa “plastica” da ogni singolo Stato nazionale sulle base di singole sensibilità o di esigenze propagandistiche e di governo del momento.
La domanda che sorge spontanea è se per il resto d’Europa valgano le stesse regole auree delle migrazioni economiche nel Regno Unito e se, quindi, i risultati siano gli stessi. «Il metodo di ricerca è lo stesso. I risultati saranno diversi per ogni altro Paese d’Europa: più alti, più bassi, nessuno può dirlo fino a quando il fenomeno non si studia con rigore. I flussi migratori hanno composizioni diverse e si inseriscono nei cicli economici. Ogni singolo caso va studiato nelle sue particolarità» dichiara Dustmann intervistato da Linkiesta. Un invito alla comunità scientifica che suona come un “economisti di tutto il mondo unitevi” e passate le ore negli archivi Istat e Inps – per citare il caso italiano.
Certo è che l’obiezione del nutrito fronte anti-immigrati in Europa è ovvia e prevedibile: magari i migranti economici non avranno impatto negativo sulle casse dello Stato, ma non si può dire lo stesso di salari e mercato del lavoro. «Che l’immigrazione possa avere pesanti effetti sui salari è un fatto. Ci sono diverse prove. Ma rimane un argomento troppo importante per essere governato dalla paura o da partiti che fanno della xenofobia una bandiera. Resta il fatto che anche i politici che non appartengono a quelli schieramenti continuano a non comprende il fenomeno nella sua complessità».
Per la verità proprio Dustmann, assiema al suo collega italiano Tommaso Frattini, nel 2013, ha condotto uno studio sull’impatto dei flussi migratori sui salari nel Regno Unito. Risultato finale: impatto positivo nella totalità delle fasce di reddito – i salari sono cresciuti. Negativo per i redditi più bassi, che coincidono con la manodopera non specializzata. Con una particolarità: sia gli effetti positivi che quelli negativi giustificano circa un ventesimo della dinamica salariale in Inghilterra. Un rumore di fondo statistico, registrabile, ma non rilevante. Come a dire che migrazioni e redditi, in quello specifico caso, finivano per non incontrarsi.
«Vivo in Inghilterra da 22 anni. Non credo vedremo una Brexit. Non voglio una Brexit»
Non la pensa allo stesso modo il premier britannico David Cameron e la sua ministra Theresa May, che negli ultimi mesi hanno prima limato la tipologia e l’entità di “welfare benefits” di cui gli immigrati possono godere, e poi disegnato una legge per innalzare da 21mila a 35mila la soglia di reddito che l’immigrato deve percepire per continuare a risiedere nel Paese oltre il quinto anno. L’obiettivo sarebbe quello di attrarre solo immigrazione qualificata. Sono anche questi i motivi per cui Cameron, adesso, chiede ai suoi cittadini di restare dentro la Ue, dopo aver indetto il referendum e legittimato, con il suo atteggiamento, le voglie di centrifughe di quel 50 per cento di inglesi – stando ai sondaggi – che non vede l’ora di andarsene. La sua posizione è riassumibile così: abbiamo già ottenuto tutto ciò che ci serviva. I critici del premier inglese (e della possibile Brexit) accusano Cameron di aver tirato troppo la corda e che adesso stia cercando di fare marcia indietro con due ruote già oltre il punto di non ritorno.
«Non penso che vedremo una Brexit. Non voglio una Brexit» chiude Dustmann che nel Regno Unito ci vive da 22 anni. Ma se anche fosse «per i lavoratori stranieri già all’interno credo non ci saranno conseguenze ed è probabile che vengano firmati accordi con i Paesi della Ue per quanto riguarda la mobilità dei lavoratori». Una Brexit col paracadute? «È troppo presto per parlarne, non voglio speculare in questo momento».