La statua più famosa della città di Kagoshima, nell’estremo sud dell’arcipelago giapponese, ritrae una massiccia figura che regge nella sinistra la spada dei samurai e guarda davanti a sé con sguardo austero. La stessa figura, in posa appena meno rigida e affiancata da un cane da caccia, compare nel centrale parco di Ueno, a Tokyo. Entrambe le statue, di bronzo, furono fuse alla fine dell’Ottocento e celebrano uno dei maggiori eroi della storia giapponese recente, Saigō Takamori.
A rendere unica la storia di Saigō Takamori è il suo carattere di totale e spettacolare sconfitta. Nella seconda metà del XIX secolo, il Giappone passava attraverso il suo periodo più confuso e drammatico da lunghissimo tempo. L’episodio più celebre, in Occidente, è l’arrivo delle navi del commodoro Perry nella baia di Tokyo l’8 luglio 1853, un evento traumatico che costrinse con la forza il paese ad aprirsi al commercio con l’estero – cioè con le potenze coloniali europee e gli Stati Uniti.
Nel frattempo, il plurisecolare sistema dello shogunato stava crollando. L’autorità dell’imperatore, priva da tempo di qualunque potere reale, venne restaurata a partire dal regno Meiji, che durò dal 1868 al 1912 e portò il Giappone dal feudalesimo alla modernità nel volgere di due generazioni.
Saigō Takamori veniva dal dominio di Satsuma, nell’isola meridionale di Kyushu. Anche se la sua famiglia apparteneva con tutti i crismi alla classe dei samurai, era povera, e il futuro eroe cominciò la sua carriera nell’amministrazione del dominio locale. La sua prima fortuna fu quella di legarsi a un feudatario locale, che cominciò a servirsi di lui per missioni diplomatiche nella lontana capitale del regno.
A rendere unica la storia di Saigō Takamori è il suo carattere di totale e spettacolare sconfitta
Dopo varie peripezie, compreso un lungo periodo di esilio solitario, Saigō Takamori riuscì a fare carriera e a raggiungere i massimi gradi dell’amministrazione imperiale. Fu uno dei capi militari nelle battaglie che imposero la restaurazione Meiji alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento.
Ma Saigō Takamori aveva già cominciato a costruire la sua fama per motivi diversi dall’abilità politica e militare. Era un personaggio molto popolare, oltre che per la sua mole gigantesca – che si intuisce dalle statue di Tokyo e Kagoshima – per il disprezzo per l’etichetta, lo stile di vita semplice, la disattenzione per il denaro e gli onori. Rimase sempre il samurai povero della periferia del Giappone.
Proprio per questo, la piega che presero gli eventi alla corte imperiale una volta che la restaurazione Meiji fu completata non potevano lasciarlo tranquillo. Mentre Saigō Takamori rimaneva fedele agli abiti tradizionali dei samurai, la nuova élite al potere si rivestiva con giacche e tube. Invece di sottolineare le differenze sociali e le rigide separazioni di classi e ruoli, il samurai mangiava con i suoi aiutanti e servitori.
Certo, c’erano anche differenze politiche, che furono le vere ragioni per cui la storia di Saigō prese una piega tragica. Nel 1873, mentre gran parte del governo era lontano dal paese in una lunga missione diplomatica in Europa e negli Stati Uniti, Saigō Takamori promosse una politica estremamente bellicosa nei confronti della Corea, con lo scopo ultimo di scatenare una guerra.
I due paesi erano in cattive relazioni da tempo e il samurai era convinto che le armi fossero il modo migliore di portare avanti la sua battaglia moralizzatrice del Giappone. La classe dei samurai, che fino a poco prima aveva avuto il monopolio assoluto dell’arte della guerra, avrebbe potuto dimostrare nuovamente il suo valore. Le élite avrebbero dovuto smettere di inseguire stravaganze europee per concentrarsi su un’attività più nobile e austera.
C’è sempre una certa attrazione per la morte, nella biografia di Saigō
La sua linea, ad ogni modo, uscì perdente nell’ottobre del 1873 e la fazione sua nemica a corte ebbe la meglio. Disgustato dalla lotta politica e scottato dalla sconfitta, Saigō abbandonò tutte le cariche, informò l’imperatore che non sarebbe mai più tornato in servizio a corte e si ritirò di nuovo a Satsuma.
Nella sua provincia natale, il suo seguito era molto forte, alimentato dall’Accademia che Saigō stesso aveva fondato e finanziava. Il samurai passava molto tempo in lunghe passeggiate per le campagne, in compagnia dei suoi cani, studiando e scrivendo poesie.
In diverse regioni del Giappone, però, iniziarono le prime rivolte contro il nuovo regime Meiji. Nel dominio di Satsuma, da sempre fieramente autonomo e poco accomodante nei confronti delle influenze esterne, la tensione saliva anche nel seguito del suo cittadino più celebre. Saigō poté restare fuori dal confronto solo per poco e il modo in cui vi venne coinvolto è rivelatore del senso profondo della sua storia.
In un giorno di gennaio del 1877, mentre Saigō si trovava a caccia con i suoi cani, alcuni giovani allievi dell’Accademia assaltarono furiosamente gli arsenali imperiali nella periferia di Kagoshima, per rubare armi e munizioni. Quando il samurai lo venne a sapere, fece una tremenda sfuriata ai suoi luogotenenti, rendendo chiaro che quell’atto di aperta ribellione era un tremendo errore.
Subito dopo lo scoppio d’ira, Saigō riacquistò la calma e diede ordine di cominciare i preparativi per una campagna militare. Il danno era fatto, ormai era un ribelle: avrebbe combattuto fino alla fine. C’è sempre una certa attrazione per la morte, nella biografia di Saigō, e la sensazione dichiarata e ricorrente da parte del samurai che la prossima impresa – come la desiderata guerra contro la Corea – sarebbe stata l’ultima.
Quella che seguì fu la sanguinosa ribellione di Satsuma: contro forze due o tre volte più numerose e meglio armate, inviate dal governo centrale, Saigō e il suo esercito di circa ventimila uomini si lanciarono in una serie di battaglie perse in partenza che durarono circa sette mesi e portarono alla totale distruzione delle forze degli insorti.
La sconfitta di Saigō Takamori non fece che accrescere la sua fama di “ultimo samurai”
Lo scontro finale, il 24 settembre 1877, avvenne alla collina di Shiroyama proprio sopra Kagoshima, dove le poche centinaia di ribelli rimasti affrontarono le decine di migliaia dell’esercito imperiale in una battaglia deliberatamente suicida. Mentre tentava di scendere la collina con i suoi, Saigō Takamori venne gravemente ferito e si fece trasportare da un suo discepolo fino a un luogo appartato dove, rivolto verso il Palazzo imperiale, commise il tradizionale seppuku squarciandosi il ventre. I pochi seguaci rimasti si lanciarono nell’ultima carica contro i fucili dell’esercito imperiale.
La sconfitta di Saigō Takamori non fece che accrescere la sua fama di “ultimo samurai” (il film con Tom Cruise è ambientato negli anni della ribellione di Satsuma). In pochi decenni, il governo fu costretto a riabilitare la sua memoria, mentre l’ammirazione popolare portò a leggende sulla sopravvivenza di Saigō. Si parlava di un futuro ritorno del samurai e si arrivò a identificarlo con il pianeta Marte, per poi inserirlo nel pantheon buddista dandogli uno status semi-divino.
Da qualunque lato la si guardi, la storia di Saigō Takamori non ha niente a che vedere con le storie di grandi personaggi storici, di eroi nazionali o simboli patriottici, che conosciamo in Occidente. La sua ribellione era motivata da un sentimento conservatore e tradizionalista, oltre che dalla rabbia per la perdita degli ultimi privilegi della sua antica classe guerriera. Sotto tutti i punti di vista, Saigō era già sconfitto dalla storia, prima che dalle armi. Combattè furiosamente contro il regime Meiji che, per quanto autoritario e militarista, fu la definitiva svolta del Giappone nella modernità.
Parte del fascino eroico di Saigō viene di sicuro dalla sua estrema lealtà a un ideale – non importa se giusto o sbagliato, in astratto, ma certo giusto nella sua prospettiva. Ma allo stesso tempo, la potenza della sua storia per il pubblico giapponese deve avere a che fare anche con il suo intrinseco carattere di essere una totale sconfitta.
Un grande studioso della cultura giapponese e amico personale di Yukio Mishima, Ivan Morris, sottolineò questo aspetto includendo Saigō Takamori – «l’eroe per eccellenza della storia moderna giapponese» – nella galleria di personaggi che compongono La nobiltà della sconfitta (Guanda, 1983). Dal principe Yamato Takeru, «l’archetipo della lunga serie dei patetici e solitari eroi giapponesi», fino ai piloti suicidi delle missioni kamikaze nella seconda Guerra mondiale, la storia del paese è costellata di “eroi” che entrano nella storia nonostante – ma bisognerebbe dire grazie – alle loro vicende di fallimenti e disfatte.
Non è facile comprendere del tutto il fascino di Saigō Takamori e degli altri eroi sconfitti giapponesi, ma un indizio può venire dalla storia recente. Con la sconfitta nella seconda Guerra mondiale, pochi paesi come il Giappone assorbirono con tanta radicalità i modi e persino i valori dei conquistatori. Lo stesso paese che era arrivato agli estremi di fanatismo dei voli kamikaze passò, quasi dall’oggi al domani, a inviare doni e migliaia di lettere di ringraziamento al padre-padrone delle forze alleate, il generale MacArthur.
Come spiega molto bene un bel libro sul Giappone recente, Embracing Defeat di John W. Dower (Norton & Co., 1999, premio Pulitzer l’anno successivo), gli abitanti fecero molto più che accettare la disastrosa sconfitta militare: la abbracciarono. Questo termine, che implica affetto e intimità, rende al meglio i complessi sentimenti di autoriflessione, desiderio di cambiamento, rigenerazione che attraversarono per molti anni dopo il 1945 la società giapponese, a tutti i livelli.
La storia di Saigō Takamori – non a caso un idolo della destra nazionalista nel secondo dopoguerra – e quella del Giappone post-sconfitta, messe fianco a fianco, insegnano qualcosa della cultura giapponese: che anche il fallimento ha la sua grandezza e che anche lo sconfitto può essere un eroe, più amato proprio per non essersi caricato dell’ingombrante peso della vittoria. Così anche il paese prostrato da una guerra devastante può continuare a pensare a se stesso come alla vittima di una lealtà forse mal riposta, ma portata con coerenza fino alle estreme conseguenze: come l’ultimo samurai, Saigō Takamori.